Non c’è più la “cooperativa” di una volta.

di Grazia Nonis. Da sognatrice, o forse grazie ad una piccola e positiva esperienza personale, pensavo che il vero obiettivo delle cooperative fosse quello di unire le idee e la forza lavoro di più cittadini, per una causa ed un vantaggio comune. Senza scopo di lucro e senza un “padrone”. Insomma, “uno per tutti e tutti per uno”, che poi la torta la si divide in parti uguali.
Ahimè, le notizie di cronaca ci raccontano tutt’altro: pochissime mosche-coop bianche gestite da persone perbene, e tantissime coop-banda Bassotti. Ho avuto modo di conoscere i soci lavoratori di qualche cooperativa di servizi, e sono impallidita di fronte ai loro racconti: paghe orarie da fame e stipendi gonfiati ad arte da finte trasferte, a mascherare ore di “straordinario” fatte di sfruttamento ed evasione di varie tasse e tributi. Qualcuno si rivolge ai sindacati e racconta la sua storia. Parte la vertenza, e con essa anche il posto di lavoro. A volte, l’ex dipendente riesce a portarsi a casa qualche stipendio extra, e basta. Fine della storia. I sindacati si fermano lì, checché ne dica la Camusso che scende in piazza solo per cose più “importanti”. L’articolo 18 fa più figo, ed è più facile battersi contro il governo, starnazzare in piazza col fazzoletto rosso al collo, che farsi il mazzo per scovare sfruttamento e sfruttatori di lavoratori indifesi, invisibili al cieco occhio sindacale. E poi, si sa, le cooperative mica si toccano. Come non si toccano, e neanche si sfiorano, quelle che gestiscono i centri profughi. E, se mettiamo da parte le cooperative serie, ahinoi molto poche, ci restano quelle che ci raccontano i giornali: capannoni, vecchi alberghi, appartamenti condominiali dove si ammassano, uno sopra l’altro, i vari “salvadanai” arrivati col barcone e i loro bei 35 euro al giorno che si portano in dote. Acqua fredda, poco cibo, percorso d’integrazione solo sulla carta. La legge non obbliga queste caritatevoli associazioni a rendicontare le spese, e succede così che la differenza tra i 35 euro e i pochi costi sostenuti per questa assurda accoglienza restano nella saccoccia di questi “soci” molto poco cooperativi. Personalmente, avevo una visione tutta mia del significato di “cooperativa”. Forse perché l’avevo toccata con mano, vissuta, apprezzata. Vi annoierò un po’, ma voglio farla conoscere anche a voi. Un breve esempio, un tuffo in un passato non troppo lontano, che pare quasi impossibile sia veramente esistito. Ricordo con nostalgia la cooperativa sociale casearia del mio paese. I suoi iscritti erano allevatori di vacche che portavano al caseificio del paese il latte munto mattina e sera. Il tesserato possedeva un libretto sul quale il casaro annotava i litri “versati” e, se la memoria non m’inganna, al raggiungimento di tre quintali di latte ogni socio aveva diritto alla sua giornata di burro e formaggio. Era una vera festa. Famiglia e parentado si trasformavano in lattai e formaggiai che seguivano le istruzioni dell’esperto casaro. Riempivano, svuotavano, mescolavano latte e producevano meravigliosi e morbidi panetti di burro, e gustose forme di formaggio che poi andavano a stagionare sulle assi di fresche cantine. Nulla andava sprecato, perfino l’ultimo siero del latte, quello verdastro e di scarto, che veniva venduto per pochi centesimi ai contadini che l’avrebbero poi utilizzato per nutrire i maiali. Poche centinaia di lire che andavano di diritto al socio, perché quella era la sua giornata del latte “cooperativo”. Lo stipendio del casaro, l’energia elettrica e le poche spese indispensabili al buon funzionamento della latteria erano a carico di tutti i soci. Nessuno si arricchiva alle spalle dell’altro, perché si lavorava insieme per soddisfare un bisogno comune. Forse era gente diversa, forse era semplicemente un altro mondo, ma io sono fiera di averne fatto parte.

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