Vivere Vegan: una rivoluzione a favore dell’economia sostenibile.

di Asteria Casadio. Il primo novembre, oltre alla consueta festività dedicata a tutti i Santi, sarà celebrata la giornata mondiale dei vegani e, se per molti il termine “vegan” non ha ancora alcun significato, i dati Eurispes del 2013 parlano di 3.720.000 vegetariani in Italia, cioè il 6% della popolazione di cui l’1,1% vegano, segnalando un notevole incremento tra le fila di coloro che scelgono, volontariamente, di non consumare alcun tipo di prodotto di origine animale: né carne, né pesce ma neppure derivati, come latte, uova o miele. Una scelta che potrebbe sembrare avere dell’irrazionale o, peggio ancora, potrebbe suonare affetta dal più trito estremismo (e che, come ogni ideologia forte a volte, forse, ha davvero ceduto alla lusinga della degenerazione: si veda l’attacco da parte di un gruppo di vegani alla festa dell’arrosticino nel torinese) ma che necessita, invece, per essere compresa, di una riflessione non superficiale su quanto e come abbiamo voglia di cambiarci, partendo dagli impulsi più semplici, come la resistenza al dolore. Si mettano quindi da parte i discorsi sull’uomo come animale onnivoro, sul “va bene non mangiare carne ma il latte cosa c’entra?” e si scorrano le immagini che appaiono digitando la voce “allevamenti intensivi” su un qualsiasi motore di ricerca virtuale. Ed ecco che la scelta vegana pretende rispetto davanti a mucche stipate in celle che non permettono alle bestie neppure di voltarsi su se stesse, celle che saranno la loro unica casa giorno dopo giorno, mese dopo mese, in una vita scandita solo dal suono dei macchinari per raccogliere il latte. Si vedano le scrofe destinate alla riproduzione e ridotte a vivere – se di vivere si parla – in gabbie da conigli, impossibilitate ad alzarsi in piedi, anzi, le cui zampe escono dalle sbarre diventate parte dell’animale stesso, in una congiunzione oscena in cui la bestia e il metallo si fondono creando mostri, vittime inconsapevoli di ingranaggi di mercato per cui l’animale è un numero: il dolore, che urla per chi lo vuole ascoltare negli occhi intravisti dietro ai ferri, resta lontano dai meccanismi di una economia che potrebbe ma non vuole trovare soluzioni alternative (l’allevamento a terra, il pascolo, la produzione cosiddetta biologica) perché una mucca non piange, o, se piange, non fa rumore. A questo, alle galline ovaiole e alle loro prigioni di produzione, ai prodotti cosmetici testati su animali, i vegani dicono no e impongono, con una scelta di spaventosa rigidità morale, di pensare un attimo in più prima di giudicare, di etichettare come “setta” o come oltranzisti coloro che, semplicemente, si chiedono cosa capiti nei loro piatti, coloro che per primi, e su loro stessi, producono una rivoluzione quotidiana contro il dolore non necessario, a favore di un’economia più rispettosa. E non importa se questa rivoluzione è oggi condotta da pochi, se dall’altra parte le pale del mercato girano violente come quelle del mulino contro cui combatteva Don Chischiotte, non importa. Ciò che conta è la bellezza di poterci credere, dell’avere ancora la forza di voler cambiare, in primo luogo se stessi. Quando quella forza manca, basta un minuto in più di riflessione, il gesto banale con cui si può leggere sul cartone delle uova se le galline che le hanno prodotte sono allevate a terra o fanno parte di allevamenti intensivi, se le sigarette fumate sono testate su animali o meno; basta leggere di più per capire che il mercato gira nel verso che i consumatori permettono che abbia, e che, se tutti compissimo pochi gesti banali, forse, il vento cambierebbe. I vegani, con una scelta che espone solo loro stessi, ci ricordano tutto questo e, forse, con un minimo d’ informazione in più anche le loro idee risulterebbero meno estreme. In un periodo di lassismo e di piattume, nel tempo del “particulare” ben venga, quindi, chi sceglie l’altro, fosse anche l’ultimo degli animali, chi trova il coraggio, chi si informa, chi dice di no senza imporre condizionamenti, chi chiede rispetto, chi prova ancora pietà.

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