L’orto dei meloni.

di Agostino Spataro. Potenza del treno! Anche il nostro piccolo mondo di campagna era impazzito. Il caos cessò alla prima fermata, alla stazione bassa di Agrigento. Qui scese molta gente. La littorina si alleggerì e prese come un respiro profondo per affrontare la salita verso la Centrale.

Procedeva a rilento, a tratti a singhiozzo, pareva aver perduto la baldanza di prima. In piedi, accostato al finestrino, ammiravo il superbo spettacolo dei paesi intorno: Raffadali, Montaperto, anche Ioppolo. Poi la visione, immensa, del mare “carta di zucchero” (l’azzurro preferito da mia madre) con le sue onde quiete, luccicanti che andavano a infrangersi sui moli del porto empedoclino. Sotto la valle, con le sagome eleganti dei templi dorici, la nostra Grecia che resiste a tutti i malanni.

La massa azzurra mi sconvolse. Era la prima volta che vedevo il mare. Ne avevo tanto sentito parlare dai nostri migranti che tornavano dalle Americhe. Ne parlavano come di un mostro instancabile, ingordo che certe volte inghiottiva perfino i grandi bastimenti. N’ebbi paura. Ora la visione del mare che si apriva ai miei occhi era di una serenità stupefacente.

Eravamo arrivati ad Agrigento, la cittaduzza di Pirandello, che, dopo avere abbattuto le torri medievali, ne stava innalzando altre “moderne”, pretenziose in cemento armato. Una sfida alla selva dei campanili delle chiese barocche. La città ci inghiottì. Mia madre mi teneva per mano.

Aveva paura del traffico caotico: automobili rumorose, un tram che sferragliava per via Atenea accanto a carretti, a carrozze affollate, a eleganti calessi decappottati trainati da cavalli pettoruti. Per le strade un formicolio di gente indaffarata. Mìa madre camminava lesta, senza molto badare a quella confusione che a me parve uno spettacolo bellissimo, eccitante.

Sconoscevo la destinazione del nastro viaggio. Chiesi a mia madre e finalmente mi disse che stavamo andando dal dentista per farmi cavare una mola “purrita” (carìata). Non ero mai stato da un dentista.
La via Atenea era tutta un gran spettacolo. Come allocchito, ammiravo le vetrine sfavillanti dei negozi, le cataste di tessuti dei “panneri”, i tanti caffè che allora erano luoghi di socialità, d’incontro e di conversazione.
La via era affollata di persone che procedevano in entrambe le direzioni. Gente di paese e di città costretta a muoversi, a fatica, nell’intenso traffico veicolare.
Per il resto, la via era un corridoio animato da coppole nere, grigie, da qualche raro fez, residuo di uno stile importato ormai al tramonto. Ogni tanto, s’incrociava un elegantone in doppio petto che ostentava un cappello sontuoso. Per noi il cappello era simbolo di potenza, di ricchezza. Difatti, in paese, lo portavano in pochissimi: il medico condotto e il cavalier Lampasona. Pensai che ad Agrigento dovessero esserci molti medici e cavalieri…
(Joppolo 10 /4/ 1994)
*(testo revisionato da “I racconti di Realturco”. Due volumi pubblicati a cura del Comune di Ioppolo Giancaxio- 2017)

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