L’export cinese minaccia anche il Brasile.

di Mario Seminerio. Gli ultimi dati macroeconomici cinesi, riferiti ai primi due mesi del 2024, mostrano un discreto recupero per investimenti fissi e vendite al dettaglio, sempre ipotizzando di accettare la veridicità delle statistiche di Pechino (come sappiamo, potrebbe essere ipotesi eroica), a cui fa da contraltare un ulteriore deterioramento del mercato del lavoro, con disoccupazione in crescita da 5,1 a 5,3 per cento, e prosecuzione della gelata del settore immobiliare.

La manifattura prosegue quindi nel suo passo di carica, supportato da generosi aiuti pubblici, e gonfia la bolla della sua sovracapacità produttiva, che deve necessariamente trovare sbocco nelle esportazioni, mettendo pressione all’industria dei paesi di destinazione.

INDUSTRIE BRASILIANE A RISCHIO.

L’ultimo paese in ordine cronologico ad avere problemi da questa policy cinese è il Brasile, la prima lettera dei Brics, l’accordo geopolitico-commerciale del cosiddetto Sud Globale che tanto fa palpitare i cuoricini degli antioccidentali confortevomente incistati nei nostri paesi.

Come riporta il Financial Times, il ministero brasiliano dell’Industria, dopo grido di dolore dei settori colpiti, ha aperto negli ultimi sei mesi altrettante investigazioni anti-dumping riguardanti importazioni dalla Cina di acciaio, pneumatici, chimica. Oltre che in Brasile, le esportazioni cinesi di acciaio negli ultimi mesi sono fortemente aumentate in Vietnam, Malaysia, Thailandia e Indonesia.

La conferma della rinnovata potenza di fuoco delle esportazioni cinesi viene dai numeri, con un incremento annuo nei primi due mesi del 2024 del 7,1 per cento, distaccando di gran lunga quella delle importazioni, al 3,5 per cento.

Il settore chimico brasiliano considera ineludibile l’imposizione di dazi temporanei contro la Cina per combattere quelle che sono definite operazioni predatorie e preservare la capacità di sopravvivenza del settore domestico. La richiesta è di dazi tra il 10 e il 25 per cento sulle importazioni di acciaio dalla Cina.

La situazione è assai poco confortevole per il presidente brasiliano, Luis Inacio Lula da Silva, che tiene molto a preservare l’export del suo paese verso la Cina, soprattutto quello agroindustriale ma anche di minerali di ferro che entrano nel processo di produzione dell’acciaio, oltre ad aver scommesso risolutamente sulla possibilità di abbattere l’egemonia del dollaro negli scambi internazionali grazie ai Brics.

Il problema di Lula è che il Brasile si trova in ampio surplus commerciale verso la Cina: lo scorso anno, ha esportato a Pechino beni per 104 miliardi di dollari, importandone per soli 53 miliardi. Il 70 per cento delle esportazioni brasiliane di semi di soia sono andate in Cina. Quindi i cinesi hanno buon gioco, volendo, a usare l’argomento del riequilibrio bilaterale negli scambi commerciali. Per rafforzare il concetto di “buona volontà”, di recente Pechino ha ridotto le tariffe sull’importazione di pollame dal Brasile.

Anche chimica e pneumatici brasiliani sono sotto il peso delle importazioni dalla Cina, con aumenti nell’ultimo quinquennio anche a quattro cifre per alcune specialità quali l’anidride ftalica, utilizzata come intermedio per coloranti, insetticidi, plastificanti, farmaci.

I BRICS E LA POLITICA ESTERA DI PECHINO.

Il problema del Brasile, come detto, è che si trova ancora in condizioni di surplus bilaterale, argomento che Pechino può agevolmente usare per invocare un “riequilibrio”. Ma Lula ha anche un grattacapo più rilevante: esportare minerale di ferro e importare acciaio rappresenta un deficit di valore aggiunto nella catena produttiva. Se obiettivo strategico brasiliano è quello di avanzare nelle catene del valore e non restare condannati al ruolo di esportatore di materie prime, questa aggressività commerciale cinese rischia di frustrare questa ambizione, con buona pace delle fantasie di Lula sulla potenza commerciale e geopolitica emergente del cosiddetto blocco dei Brics.

Il quale blocco, al risveglio, si rivelerebbe null’altro altro che uno degli strumenti di elezione di Pechino per perseguire la propria aggressiva politica estera mediante quella commerciale, con la beffa del continuo richiamo retorico al “libero commercio”, che per Pechino significa sussidi pubblici a vasto raggio.

Come detto, molti altri paesi stanno aprendo investigazioni anti-dumping contro la Cina. In Thailandia, il settore dell’acciaio denuncia il dumping cinese mediante aggiramento delle tariffe concordate, ad esempio sostituendo tipologie di prodotto finito rese fungibili per utilizzo finale. In Vietnam, oltre che sull’acciaio, sono state aperte investigazioni sulle torri eoliche.

Ma la situazione più delicata è quella del Messico, scelto dalla Cina come prossima testa di ponte per tentare di aggirare i blocchi all’ingresso nel mercato americano costituiti dalle regole di origine delle importazioni. Sotto forte pressione di Washington, lo scorso anno il Messico ha imposto tariffe tra il 5 e il 25 per cento su importazioni da paesi con i quali non ha in essere trattati di libero scambio.

Di rilievo tuttavia il fatto che di recente Donald Trump abbia dichiarato che, se i cinesi vogliono vendere auto negli Stati Uniti, devono insediare impianti nel paese. Un approccio transazionale, caratteristico di Trump.

LULA E IL NEOCOLONIALISMO.

Resta il dato di fondo: la Cina ha deciso di inondare il pianeta di propri prodotti, per saturare l’eccesso sussidiato di capacità produttiva. Ciò causerà crescenti attriti commerciali e politici. Le criticità dell’interscambio bilaterale tra Cina e Brasile ci ricordano che quella dei Brics può rivelarsi una fiaba per sprovveduti, oltre che l’ennesima incarnazione di un cavallo di Troia di Pechino, dopo che la Via della Seta ha subito rovesci legati all’eccesso di indebitamento di molti paesi “beneficiari” delle attenzioni cinesi.

Attendiamo il risveglio alla realtà da parte di Lula, sempre così reattivo a denunciare i disegni degli occidentali contro il suo paese e il mitologico Sud Globale, le cui ambizioni di crescita industriale sarebbero coartate dietro politiche commerciali “neocolonialiste”. Più o meno quello che ora l’industria brasiliana rischia per mano cinese.

Fonte: https://phastidio.net

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