#IORESTACASA. Ma come può restare a casa chi una casa non c’è l’ha? di Clemente Luciano

di Clemente Luciano. La vita ai tempi del coronavirus. Una vita “fatta in casa”, senza poter uscire, senza poter frequentare gente, senza poter andare in quei posti (scuole, università, parchi, musei, cinema, stadi) dove fino a ieri abbiamo vissuto la nostra “normalità”.

Perché è questo, secondo gli scienziati, il modo per battere il terribile male che abbiamo imparato a conoscere come Covid-19. Ma alla fine queste restrizioni sono state accettate da tutti, tutti essendo ben consapevoli di quello che c’è in gioco. Ma in questo dramma che sta vivendo l’Italia, c’è un altro dramma, estraneo all’attenzione di ognuno di noi. Un dramma silente che si muove tra le pieghe dell’emergenza da Coronavirus: è il dramma dei clochard, di coloro che anche in tempi di “normalità” non hanno voce e il cui silenzio nessuno di noi ascolta.

Dopo le misure governative, l’Italia si è ulteriormente fermata. “Tutti a casa”, come il titolo del film di Luigi Comencini. Da quel momento i social sono stati inondati dall’hashtag #iorestoacasa, in segno di solidarietà ed unità nazionale. Ma come può restare a casa chi una casa non c’è l’ha? Come può lasciare strade e piazze chi in quelle strade e piazze ha la propria fissa dimora?

Sono i clochard, i “barboni”, come con un pò di disprezzo tutti noi li definiamo. E, se già in periodi di “normalità”, i senza tetto vivono in uno stato di totale abbandono ed emarginazione, in questo delicato momento nel quale viene imposto al popolo “normale” il “distanziamento sociale”, quanta considerazione possono avere adesso “loro”, che oggi ancora di più, rischiano di essere completamente fagocitati dall’indifferenza sociale?

Nessuno può girare, in questi nuovi giorni di questa nuova Peste. Solo “loro”, i clochard, i barboni, i senza tetto di ogni parte d’Italia, rimangono all’aperto nelle città chiuse. Nessuno che fa più l’elemosina perché nessuno può uscire di casa, e senza soldi che puoi comprare, e dove, poi, se è tutto chiuso?

I negozi sono sbarrati, bisognerebbe spingersi verso i super e gli ipermercati, ma dove la trova la forza per andarci in quei posti, la gente di questo popolo fantasma? Solo le mense dei poveri distribuiscono qualche cosa di caldo: cibo e umanità. E sono sempre gli stessi che lo fanno: Caritas, Croce Rossa e Associazioni di Volontariato.

“State in casa”, dicono i medici, il governo, la Protezione Civile. Come se poi questa gente una casa l’avesse. E talora arriva pure la beffa, quasi lo sberleffo. Nei giorni scorsi un senza tetto ucraino è stato denunciato da una volante perché “camminava per strada non ottemperando le disposizioni del decreto”.

Chi vive in questo mondo “altro” è sempre un ex di qualcosa: impiegato, commesso, operaio, studente, ciascuno con una ex vita e un ex mondo dietro e dentro che ora ha dismesso, con una vita stracciata, come i panni che hanno addosso. E chissà per quali e quante vie sono finiti adesso qui, in queste altre strade, in queste altre vite. Per vie traverse finiti qui, magari con un cane che amano più di se stessi, con cui dividono il piatto di pasta della Caritas.

Ogni tanto qualcuno di loro racconta a qualche giornale o tv la propria storia e ringraziano questi ragazzi e quei dottori che hanno cura di loro. Come faceva il “dottore” Enzo Jannacci, che visitava gratis i clochard nel proprio ambulatorio. E ha dignità e orgoglio questa gente.

“Io non ho bisogno di niente”, dice sulle prime qualcuno di loro. Ma poi prendono scarpe, vestiti e altre cose che ciascuno di noi ha da poco dismesso. E sono sempre e solo “Gli Angeli della Notte”, la Caritas, la Croce Rossa, le associazioni di volontariato che stanno loro vicino, cercando, in questi giorni di coronavirus, di dar loro ulteriore assistenza, cercando di allontanarli da quel terribile mostro che si chiama Covid-19.

Il senzatetto appartiene ad una “popolazione” affacciata sul vuoto a ridosso di un abisso pieno di dolore e povertà. Uomini e donne che vivono in un mondo invisibile dove quasi mai si fanno vedere, tranne quelli che chiedono l’elemosina. Dei clochard nemmeno ce ne accorgiamo, quasi fossero trasparenti, forse perché hanno vergogna di mescolarsi agli altri, i cosiddetti “normali”.

Sono infagottati di stracci, carichi di sacchetti al cui interno c’è tutta la loro “ricchezza”, quello che racimolano in giro o nei cassonetti della spazzatura, come scarti di cibo, stracci, scarti inutilizzati dalla società dei consumi sfrenati e cartoni per ripararsi dal freddo.

Vite prive di Vita. Vite prive di qualsiasi cosa, materiale o affettiva, che non hanno nessun punto di riferimento se non una panchina o un portico per passare la notte. Vite di persone che hanno scelto un’esistenza basata sulla libertà, ma soprattutto persone ammalate, disconosciute dai familiari, tossicodipendenti, ex carcerati o pazienti dimessi dai manicomi.

Ma tra di loro ci sono però anche persone “normali”: disoccupati, immigrati, sfrattati, emarginati per gli innumerevoli casi della vita. Tutte queste categorie di persone cadute in disgrazia sono uno scossone al nostro intorpidito senso di giustizia. Sono costretti ad umiliarsi per chiedere un pezzo di pane oppure qualche spicciolo, poiché dalla vita, nella loro vita, non hanno ricevuto nulla, oppure il destino ha voluto prendersi gioco di loro, volontariamente o meno.

Eppure, forse, basterebbe poco per restituir loro dignità e un senso per vivere: un lavoro per il disoccupato, una cura per chi è ammalato o drogato, una stanza per chi la casa l’ha persa. E un cuore e un diverso modo di “sentire” da parte di tutti noi.

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