Il voto di domenica è anche un giudizio sull’operato del governo.

di Eugenio Capozzi. Mentre la campagna referendaria sulla riforma costituzionale si avvia ormai alla fine, sembra sia sempre più impossibile discutere sul merito del provvedimento. Il dibattito si è ormai da tempo trasformato in un referendum su Matteo Renzi. Le argomentazioni per lo più si sono ridotte a slogan, con un profluvio di immagini apocalittiche da ambo le parti: scenari disastrosi di instabilità se la riforma venisse bocciata, o di derive autoritarie e dittatoriali se venisse approvata. 

Questa degenerazione del confronto non si può considerare però un evento accidentale, né può essere addebitato all’eterna indole guelfo/ghibellina degli italiani. Essa va attribuita invece in primo luogo proprio all’attuale Presidente del Consiglio, che ha utilizzato la riforma costituzionale in modo spregiudicato, demagogico e strumentale per presentarsi come il leader decisionista che taglia i nodi irrisolti, il primo a riuscire nell’impresa di cambiare la Carta del 1948, il nemico della “casta” dei politicanti. E per dare, in questo modo, al proprio governo quella legittimazione di consenso che avvertiva (e avverte sempre più) mancargli. Nato nel clima di convergenza necessaria delle “larghe intese” dopo lo stallo delle elezioni del 2013, il processo di revisione costituzionale ha cambiato infatti completamente senso dopo l’uscita di Forza Italia dalla maggioranza che sosteneva il governo di Enrico Letta, e poi ancor più dopo la nascita dell’esecutivo Renzi – fin dall’inizio imperniato su una leadership fortemente personalistica – e la rottura definitiva tra quest’ultimo e la destra, avvenuta quando egli ha imposto l’elezione al Quirinale di Sergio Mattarella. Da allora, il premier e segretario Pd ha scelto di proseguire da solo il cammino della riforma, concependola come un grande spot pubblicitario per se stesso e asserragliandosi nella propria maggioranza, senza preoccuparsi di portare a termine un disegno di revisione organico e condiviso. Il sigillo definitivo e indelebile su questa distorsione faziosa della discussione in merito alla Costituzione è stata qualche mese fa la promessa, da parte di Renzi, di legare alla riforma il proprio destino politico, e di dimettersi nel caso essa fosse stata respinta in sede referendaria. Promessa che si è trasformata rapidamente in un boomerang, visto che ha catalizzato sul referendum costituzionale tutti i crescenti malumori dell’opinione pubblica sull’operato del governo, e ha compattato contro di lui opposizioni politiche di natura anche molto eterogenea. Il premier ha tentato a quel punto di correggere la rotta, ma ormai il danno era stato fatto. E quindi egli è stato costretto, per recuperare in qualche modo, a rilanciare alzando continuamente la posta della polemica. Da un lato, dipingendo il confronto in corso come una sorta di guerra di religione tra “nuovo” e “vecchio”, nel solco della ormai frusta retorica “nuovista” impostasi nella politica italiana nei primi anni Novanta. Dall’altro, adottando o annunciando una lunga serie di provvedimenti governativi finalizzati alla ricerca del consenso facile attraverso l’aumento della spesa pubblica, nella più classica tradizione degli esecutivi della prima Repubblica: massicce assunzioni in varie branche del pubblico impiego, finanziamenti ad ogni sorta di opere pubbliche soprattutto nel Mezzogiorno (area in cui, guarda caso, l’opposizione alla riforma sembra essere più forte e radicata), persino un “colpo di teatro” come la ventilata abolizione dell’impopolarissima Equitalia, e così via. Fino alle punte grottesche e imbarazzanti raggiunte da una propaganda per il Sì (da parte del Pd come delle lobbies filogovernative interne ed estere) che dipinge l’approvazione della riforma costituzionale come il lasciapassare necessario per il progresso del paese in ogni campo, e il suo eventuale restringimento come causa di apocalittiche catastrofi finanziarie, economiche, bancarie o monetarie. E’ quindi ormai inevitabile che il voto del 4 dicembre sia in primo luogo un giudizio sul governo. E che chi voterà No alla riforma vorrà esprimere con quel voto anche la propria disapprovazione sia per l’azione del governo stesso, sia per il suo discutibile modo di strumentalizzare a fini propagandistici il dibattito sulle istituzioni e per la demagogia elettoralistica delle misure varate o annunciate dal governo dall’estate a oggi. Il voto contrario al d.d.l. Boschi non potrà non essere anche la bocciatura di un governo che, a dispetto di roboanti promesse, non è riuscito né a far ripartire la crescita economica, né a combattere efficacemente la disoccupazione, né a rendere più efficienti e liberalizzare i servizi essenziali (si vedano i clamorosi flop della riforma della scuola e della pubblica amministrazione, l’abbandono di ogni velleità di intervenire sul disastro della giustizia, l’eclissi della “spending review”, l’insabbiamento di ogni razionalizzazione nella giungla delle aziende partecipate locali). Ma non va dimenticato che il primo e più importante motivo per votare No a questo referendum è il fatto che la riforma costituzionale Renzi/Boschi è sbagliata, controproducente, e se approvata recherà un notevole danno sia alla rappresentatività che all’efficacia delle istituzioni democratiche italiane. Essa non renderà i governi più stabili, come Renzi proclama, ma al contrario li indebolirà, perché concentrerà il potere legislativo in una sola Camera, senza che sia stato introdotto alcun meccanismo di rafforzamento dell’esecutivo (secondo i classici modelli del presidenzialismo o del parlamentarismo rafforzato presenti nelle democrazie più solide e radicate). Un maggior numero di leggi approvate in minor tempo dal parlamento (se pure ciò accadrà) non vorrà dire una maggiore capacità dei governi di portare avanti programmi chiari e coerenti: in Italia di leggi se ne approvano già ora fin troppe, mentre ne servirebbero poche, chiare e facilmente applicabili. Eliminerà sì il bicameralismo paritario, ma creando un bicameralismo talmente asimmetrico da rasentare il monocameralismo: che non esiste in nessuna delle maggiori democrazie (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania), dove invece le seconde Camere, quale che sia la loro base rappresentativa, partecipano al potere legislativo su base quasi paritaria, evitando processi legislativi troppo precipitosi e dominati da lobby radicate in uno dei rami parlamentari. Infine, creerà una seconda Camera che in realtà non rappresenterà né i governi regionali (come il Bundesrat tedesco) né i consigli regionali e comunali (vi figurano insieme consiglieri regionali e sindaci), e che verosimilmente userebbe i pochi poteri ad essa attribuiti per difendere gli interessi corporativi del ceto amministrativo locale, soprattutto in termini di spesa pubblica. Si tratta, insomma, di un nuovo assetto che introduce elementi di maggiore confusione, e non di riequilibrio, tra i poteri. In ogni caso, se questo progetto di revisione è tanto superficiale e sciatto è proprio perché esso non è nato da una riflessione condivisa che affrontasse con equilibrio tutte le questioni relative alla governabilità e alla rappresentanza, ma da un superficiale e frettoloso intento propagandistico. Per questo motivo il No alla riforma Renzi/Boschi che auspichiamo per il 4 dicembre può essere considerato tutt’uno con il No ad un esecutivo che ha mancato clamorosamente i suoi obiettivi. Un fallimento che nessuno specchietto per le allodole può occultare: tanto meno se l’inganno viene perpetrato a danno delle istituzioni costituzionali, delicatissime ed insostituibili garanzie di convivenza civile per le generazioni future.

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