Donne emancipate, ma non ancora abbastanza forti e tutelate per difendersi dal ‘bruto’.

di Grazia Nonis. Prendevano un sacco di botte. Se la pasta era scotta o sciapita; la camicia non era stirata alla perfezione; la tavola non era apparecchiata all’ora prestabilita; i bambini facevano troppo rumore; per gelosia.
Pugni e calci quando si permettevano di rispondere. Perché l’uomo non si contraddice. Perché l’uomo ha sempre ragione. Sfilata di braccia tumefatte e labbra gonfie; occhiali scuri a coprire gli occhi pesti; sorrisi di gomma a camuffare angoscia e disperazione. Non denunciavano e subivano, in silenzio, colpevolizzandosi per non aver fatto le cose perbene.
E poi, in fondo in fondo, “lui ha ragione”. “E’ stanco, lavora troppo, ci mantiene e non ci fa mancare niente, averne come lui”. “No, non lo posso lasciare, non si disonora la famiglia.” A nord come a sud, vittime di un uomo violento che in troppi casi aveva imparato dal padre l’arte del maltrattare le donne. Piccolo ma impotente osservatore di manate e spinte che scaraventavano la mamma dall’altra parte della stanza.
Manate e spinte che, molto presto, avrebbe fatto sue. Erano appena iniziate le prime manifestazioni femministe di piazza, ma le donne vittime di violenza niente avevano a che fare con “La vagina è mia e la gestisco io”. Troppi problemi a far quadrare i conti, a tenere in ordine la casa, crescere i figli e preparare il terreno per il ritorno del bruto. Compresa la preghiera alla Madonna affinché tutto filasse liscio: speriamo che sia di buon umore, non l’abbiano fatto arrabbiare al lavoro, non si sia fermato al bar a bere un bicchiere di troppo. Le botte non avevano una cadenza fissa, ma alla bisogna, come una medicina, una cura. La cura. Il giorno dopo arrivavano le scuse: il “Non lo faccio più” in cambio del “Ti perdono”.
Il rito più bugiardo ed ipocrita del mondo che suggellava, ancora una volta, un matrimonio o un’unione di due vite che invece avrebbero dovuto separarsi per non incontrarsi mai più. Non si sono ribellate. Non se ne sono mai andate. Per questo motivo, forse, sono rimaste vive.
Le donne di oggi sono emancipate, studiano, lavorano, conoscono i loro diritti e se si stancano di una storia la chiudono. Se incontrano un bruto manesco possessivo e geloso, la faccenda diventa molto più complicata, difficile, mortale. Il bruto di allora è il bruto di oggi. E quello di oggi, come quello di ieri, non tollera che una donna gli risponda con un “No!”
Il bruto moderno, però, ha avuto la possibilità di allargare i suoi orizzonti; assistere e partecipare alle battaglie ed alle conquiste femminili; navigare su internet; divorare informazioni, cambiamenti. Ma non ha imparato nulla.
Spettatore passivo della nuova libertà femminile, egli rifiuta con forza il nuovo ruolo della donna nella società, e con ostinazione continua a considerarla un oggetto di sua proprietà, da tenere in casa al riparo da occhi indiscreti; chiuso a chiave in una teca affinché solo lui lo possa ammirare e toccare; nella sala dei giochi per poter soddisfare i suoi bassi istinti animaleschi; nella stanza delle punizioni, con lei gonfia e ammaccata di botte.
Donne forti che combattono, e denunciano pensando di essere tutelate dalla legge. Legge che si attiva in maniera astrusa, contorta: vieta il “contatto” con la persona offesa; l’avvicinamento; lo scrivere; il parlare; l’invio di sms; il rivolgere lo sguardo alla vittima. Come se queste quisquilie e pinzillacchere fossero in grado di fermare l’animale che prepara l’agguato per la sua preda. Legge che si fa più dura solo quando parte la coltellata, il colpo di pistola, la sega che le taglia a pezzi. Mani di boia che ripongono i resti dell’amata nel congelatore in cucina.
Donne imprudenti, oggi come allora, che ignorano i campanelli d’allarme di un amore ormai malato, terminale. Povere illuse che pensano di avere la capacità e la forza di “cambiarlo” oppure di gridargli in faccia che è finita, ma che concedono all’orco quell’ultima chance che le porterà alla morte.

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