Chi salvò Gheddafi?

di Agostino Spataro. Aldo Moro avrebbe potuto aiutare i congiurati e punire chi aveva scatenato la campagna contro gli italiani. Invece, diede al generale Vito Miceli, capo del SID, l’ordine di bloccare (a Mestre) la partenza della nave dei golpisti e così salvare Gheddafi e il nuovo regime da un attacco che poteva essergli fatale.

Aldo Moro e Muammar Gheddafi

“L’intuizione di Moro fu, in generale, apprezzata e sostenuta dalla gran parte dello schieramento politico e parlamentare e sarà verificata, confermata e sviluppata nel corso degli anni successivi, sia nei rapporti con la Libia sia con altri Paesi maghrebini e arabi: Tunisia, Algeria, Marocco, Egitto, Siria, Libano, ecc.

Il punto più critico dei rapporti con i libici si raggiunse nel luglio del 1970, quando Gheddafi decretò l’espulsione dalla Libia di circa 20.000 italiani provocando un grave dramma sociale e umano e serissimi problemi al governo italiano.
Moro, nell’impossibilità di bloccarla, se ne fece una ragione. Anzi, secondo un telegramma inviato il 6/9/70 da Tunisi ai Capi dello Stato e del governo italiani, ne diede un’interpretazione politica tendente a sdrammatizzare.
“L’esproprio e la cacciata della comunità italiana servono in parte anche a coprire la ritirata ideologica di Gheddafi sul fronte della lotta a Israele, oltre che a ribadire il carattere rivoluzionario del regime. I Colonnelli han bisogno di gesti del genere (anche nel settore del petrolio, ove si contenteranno per ora dell’aumento del prezzo), così come continueranno ad avere bisogno di complotti, veri o falsi. A organizzare questi ultimi pensano i servizi speciali egiziani”.(Alberto Custodero in “La Repubblica” del 9/8/2008).
Se non proprio giustificativa, tale posizione appariva quasi comprensiva, tipica di chi non cerca vendetta ma un buon accordo.
Una conferma indiretta di tale proposito si ebbe in quello stesso anno, quando l’opposizione libica, in combutta col governo inglese, mise in atto un piano (“operazione Hilton”) per rovesciare Gheddafi.
Aldo Moro avrebbe potuto aiutare i congiurati e punire chi aveva scatenato la campagna contro gli italiani. Invece, diede al generale Vito Miceli, capo del Sid, l’ordine di bloccare (a Mestre) la partenza della nave dei golpisti e così salvare Gheddafi e il nuovo regime da un attacco che poteva essergli fatale.
Seguì, il 5 maggio 1971, un cordiale incontro tra Moro e il Colonnello nel quale il ministro degli esteri italiano si rese disponibile verso le richieste libiche, spingendosi addirittura- come sostiene Custodero- a promettergli la “fornitura di mezzi di trasporto navale ed aerei, in particolare elicotteri o aerei da addestramento ”…
Il generale Miceli in soccorso di Gheddafi
In questo nuovo clima, i governanti italiani, al pari di taluni altri leader europei, agirono per proteggere il regime del giovane Colonnello dagli attacchi e dai tentativi di golpe portati avanti dall’entourage del re Idriss in combutta con vecchie potenze coloniali.
In diverse occasioni, l’Italia svolse un ruolo, addirittura, di tutela del nuovo regime di Tripoli. Abbiamo già detto del soccorso dato a Gheddafi, nel 1970, per far fallire “l’operazione Hilton”.
La collaborazione tra i servizi continuò nel tempo.
Ovviamente, Miceli non agì per simpatia personale verso il Colonnello ma, come più volte mi raccontò, per ordine dei governanti italiani, in particolare di Aldo Moro, i quali, saggiamente, erano consapevoli che per tutelare gli interessi italiani in Libia bisognava salvare Gheddafi.
Vicende arcinote anche perché oggetto di numerose inchieste giornalistiche e perfino d’indagini giudiziarie che, però, il generale, divenuto nel 1983 mio collega in commissione Difesa e vicino di ufficio nell’ex convento di Vicolo Valdina, ogni tanto mi raccontava, ripetendosi. Forse, pensando di farmi cosa gradita, poiché sapeva delle mie relazioni politiche con esponenti libici, palestinesi e di altri Paesi arabi. Del resto anche di lui si diceva che fosse “filo arabo”.
Etichette, usate per sviare i problemi, per non affrontarli. Personalmente, non sono stato mai “filo” qualcosa o qualcuno, ma solo un sostenitore della giusta causa dei popoli arabi e in particolare di quello palestinese. Per questo mio impegno fui indicato, in un discorso alla Camera, da Giorgio Almirante (capo politico di Miceli) come “amico” di Arafat e dei gruppi “terroristi” palestinesi e arabi. Venendo da lui, considerai l’accusa un grande onore!

Los Angeles, marzo 1986. Agostino Spataro e Vito Miceli durante il viaggio negli USA

A scanso di equivoci, desidero precisare che col generale Vito Miceli non ebbi mai relazioni confidenziali, di vera amicizia. Eravamo collocati su sponde politiche contrapposte. Ci divideva il fiume della storia: lui sulla riva destra ed io su quella sinistra e non c’erano ponti a congiungerle. Fra noi ci fu solo un rapporto fra colleghi di commissione che si rafforzò a seguito di un episodio accaduto a New York, durante una visita negli Usa di una delegazione della commissione Difesa.

Il fatto successe in una gelida sera di febbraio 1986, all’uscita dal teatro Broadway, dove eravamo andati a vedere il celebre musical “Cats”. Nella via c’era un freddo estremo, provocato da folate di vento glaciale provenienti dal nord.
Eravamo in attesa del “verde” per raggiungere il ristorante posto nella parte opposta dell’avenue. Improvvisamente, vedemmo il generale accasciarsi a terra.
In quel trambusto e nell’attesa di trovare un medico, pensammo di toglierlo dal gelo e di portarlo, a braccio, all’interno del ristorante.
Al caldo, l’anziano generale si riprese; “niente, nulla di grave…” ci rassicurò. Non volle che chiamassimo un medico per un controllo. Partecipò al pranzo, come previsto.
Dopo questo episodio, Miceli prese a guardarmi con una certa simpatia. Mi chiamava “paisà” per via della comune origine siciliana (era nativo di Trapani anche se mi disse che la famiglia paterna proveniva da Castronovo di Sicilia, in provincia di Palermo).
Da vecchio volpone, con l’occhio allenato, più di una volta mi avvertì di “fare attenzione” alla bella interprete che spesso s’intratteneva con me. “Stai attento, paisà, quella è una tigre. Te l’hanno messa alle calcagna per controllarti”.
Lo diceva con un sorrisino appena accennato che lasciava trapelare tutta la sua esperienza in fatto di spionaggio e di controspionaggio. La cosa poteva avere anche un fondamento poiché ero uno dei tre comunisti approdati negli Usa, in deroga a un divieto di legge, che stavano visitando importanti basi militari americane, compresi i silos dei missili nucleari intercontinentali…”
* dal mio libro “Nella Libia di Gheddafi”

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