Sovraffollamento nelle megalopoli e lavoro inutile.

di Gunther Sosna. La popolazione mondiale continua a crescere e l’urbanizzazione sta raggiungendo proporzioni senza precedenti. In megalopoli come Tokyo, San Paolo, Giacarta, Lagos e New York milioni di persone vivono a stretto contatto. Tuttavia, vivere in società di massa non è né adatto alla specie né salutare. Il sovraffollamento favorisce lo sviluppo di malattie mentali e porta a disturbi di comportamento.

Anche nelle metropoli europee le persone sono ammassate le une sulle altre, ma mentre il fantasma della sovrappopolazione globale è fonte di preoccupazione, la convivenza nei confini delle città non viene messa in discussione. Ci si aspetta che le persone facciano i conti con la “mancanza di spazio” artificiale, riflesso dei rapporti di proprietà e potere. Le città sono ottimizzate a questo scopo. Devono diventare intelligenti, belle, pulite e naturalmente sicure.

Meno auto, più biciclette, meno asfalto, più prati, sempre più controlli, sempre meno libertà, brevi distanze per raggiungere il supermercato e la farmacia, qualche albero in vaso, energia verde, ripari per i senzatetto, bunker dell’apocalisse per i ricchi, tranquillanti e “tittytainment” per tutti (termine inglese derivato dalle parole “tits” (tette) e “entertainment” (intrattenimento), cioè l’allattamento al seno materno, gesto di condizionamento che rende il bambino dipendente dalla madre, per creare un sentimento di sicurezza, uno stato di sonnolenza e letargia, N.d.T.). Tutto segue una logica economica che accetta l’estinzione sociale. Ma c’è una cosa che non deve accadere lungo il percorso: che la gente si renda conto del fatto di essere superflua e si ribelli.

Compattazione. Lavoro. “Impieghi di merda”.

Il 50% delle persone vive su appena il 2-3% della superficie disponibile e la popolazione mondiale, attualmente di circa 8 miliardi di persone, continua ad essere stipata in sempre meno spazio. Entro il 2050, il 70% dei quasi 9 miliardi di abitanti del mondo vivrà in aree urbanizzate. Negli Stati Uniti, oltre l’83% della popolazione vive già in città, in Germania la percentuale è di circa il 75%. A Berlino, la città più popolosa della Germania, circa 3,8 milioni di abitanti sono concentrati in un’area di 892 chilometri quadrati. A Tokyo, attualmente la megalopoli con il maggior numero di abitanti, 9,6 milioni di persone vivono su 628 chilometri quadrati, una superficie pari a circa il doppio di quella di Brema.

Le ragioni di questa concentrazione di persone in aree ristrette sono da ricercare principalmente nel cambiamento dell’economia. L’urbanizzazione è iniziata a metà del XVIII secolo con la transizione dalle società agricole all’era industriale. La produzione, la distribuzione, il consumo e il lavoro umano si sono concentrati nelle città. Si sono creati posti di lavoro e con essi prospettive di reddito e prosperità. Con il progredire dell’automazione e l’ottimizzazione dei processi produttivi, la domanda di lavoro nell’industria, inizialmente elevata, è diminuita e la manodopera si è spostata verso il settore dei servizi.

Nel 1970, ad esempio, la percentuale di persone impiegate nel settore terziario in Germania era pari al 45,1% della forza lavoro totale. Nel 2019 era del 74,5%. (3) Una carovana infinita di televenditori, agenti assicurativi, consulenti finanziari, banchieri, broker, lobbisti, avvocati ed esperti per qualsiasi cosa popola il Paese. A loro si aggiunge un esercito di manager e burocrati che gestiscono dati, cose e persone. Tutti hanno una cosa in comune: non producono nulla e non creano valore.

L’agricoltura in Germania è praticamente automatizzata. Le macchine e i robot si sono impadroniti della produzione, i programmi informatici e l’intelligenza artificiale stanno penetrando nel settore dei servizi e assumono compiti di routine. Anche se le dichiarazioni ufficiali dipingono un quadro diverso, il bisogno di manodopera umana sta diminuendo. Negli ultimi decenni il numero di disoccupati si è ridotto grazie al lavoro part-time. Tuttavia, questo ha fatto sì che molte persone riescano a malapena a vivere con questo tipo di lavoro.

Inoltre, sono stati creati sempre più lavori che non hanno alcun senso, se non quello di essere pagati per svolgerli. Gli esempi sono molti. L’antropologo David Graeber ha pubblicato nel 2018 un libro su questo fenomeno, il cui titolo dice tutto: “Bullshit Jobs” (Lavori di merda). La risposta sul perché l’aveva data 5 anni prima in un articolo per la rivista Strike!:

“È come se ci fosse qualcuno che escogita ogni sorta di lavoro inutile solo per tenerci tutti occupati. Ed è proprio qui la soluzione dell’enigma. Nel capitalismo, questo è esattamente ciò che non dovrebbe accadere. (…) La risposta non è chiaramente economica: è morale e politica. La classe dominante ha capito che una popolazione contenta e produttiva, con tempo libero a disposizione, è un pericolo mortale. (Pensate a quello che è iniziato a succedere negli anni ’60, quando si stava andando in quella direzione”).

La società 20/80.

Si potrebbe anche dire che coloro che sono impiegati nella società di classe di oggi non sono inclini alla rivolta politica. I salariati, che possono solo vendere la loro forza lavoro, rimangono legati alla città in un modo o nell’altro. Le masse barcollano verso la mancanza di prospettive. Nel XXI secolo la maggior parte di loro non è necessaria per lavorare né in ufficio né davanti a una macchina, né a tempo pieno né per qualche ora. A causa della mancanza di reddito, non sono nemmeno utili come consumatori. Questo li rende praticamente superflui in senso economico, ma non devono rendersene conto.

Hans-Peter Martin e Harald Schumann, nel loro libro del 1996 “La trappola della globalizzazione: l’attacco alla democrazia e alla prosperità” hanno sottolineato che in futuro il 20% della popolazione in età lavorativa sarà sufficiente a far funzionare tutta l’economia globale. Il restante 80% vivrebbe con il sostegno dello Stato o con qualche altra forma di welfare.

La società 20/80 è ancora lontana, ma costellazioni simili stanno diventando sempre più comuni. Nel 2017, quasi l’8% della popolazione mondiale era disoccupato e circa il 30% era sottoccupato. In Paesi come la Grecia e la Spagna, la disoccupazione giovanile ha raggiunto un livello elevato: oltre il 30% non ha un lavoro. In Sudafrica, un giovane su due di età inferiore ai 34 anni è disoccupato. Si tratta di un fenomeno socialmente esplosivo. Cosa faranno tutti questi giovani? Aspetteranno tempi migliori?

È necessario distrarli, in modo che le persone per le quali non c’è alcuna utilità possano sopportare la loro situazione e non pensino di cambiarla. Si dice che Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter, abbia presentato la soluzione al primo Forum sullo Stato del Mondo a San Francisco nel 1995: “Tittytainment”. Un mix di intrattenimento di basso livello e alimentazione adeguata dovrebbe essere sufficiente a calmare una popolazione mondiale frustrata, ma questo da solo non basta. C’è un’altra leva che viene utilizzata dalla classe dirigente e si trova nella “valle della paura”.

La grande paura.

L’orrore affascina le persone, le attrae magicamente. Sono pronte a scatenare la loro psiche affrontandolo. Quando l’effetto della paura si attenua, la vita diventa tangibile. Nell’era della comunicazione digitale, in cui infuria la battaglia per l’attenzione, tutto ciò che sembra adatto a scatenare una reazione viene attratto dai media come da una calamita, discusso come possibilità e approfondito. Trasmesso attraverso ogni canale di comunicazione possibile, ricevuto innumerevoli volte, duplicato e commentato in blog, giornali, Telegram, Facebook, WhatsApp, TikTok e altri media, l’effetto è amplificato e il buon senso viene messo da parte da una valanga di informazioni spazzatura.

Il fatto che nessuno, nemmeno gli intellettuali e i cosiddetti esperti che dovrebbero saperne di più, possa facilmente sfuggire alla “valle della paura” è fondamentale per il controllo delle persone. Chi ha paura ha anche un bisogno individuale di “sicurezza”. Ancorato nella psiche come un istinto primordiale, il soddisfacimento di questo desiderio è il meccanismo più importante per l’assoggettamento dell’Homo sapiens. O per dirla in altro modo: chi stabilisce di cosa si debba aver paura e allo stesso tempo promette la redenzione dalla paura prescritta, domina la psiche delle persone e può farne ciò che vuole.

L’interazione tra minaccia e redenzione, una sorta di controparte del paradiso o dell’inferno o di vita e morte, apre spazi di immaginazione e di pensiero per la società nel suo complesso, in cui possono penetrare anche i più improbabili scenari apocalittici: impatti di comete, supervulcani, alieni, fluttuazioni di temperatura, buchi nella stratosfera causati dalla lacca, robot in rivolta, virus killer. Alla fine, tutti sanno tutto e nessuno sa niente. Perché non è successo nulla! L’apocalisse è stata rimandata, resta solo il grande tremore, mentre si stende il tappeto rosso per il k.o. della civiltà.

I problemi sostanziali, i cui effetti sono devastanti per tutte le società, vengono portati all’attenzione delle masse dai regimi a seconda delle necessità, ma solo per tenere insieme il proprio gregge attraverso un falso “noi”. La guerra in Ucraina ne è un esempio, così come la violenza in Medio Oriente. I protagonisti vengono prematuramente classificati in buoni e cattivi. Appelli come “Stop!”, “Fermate la distruzione!”, “No alla violenza!” affondano nel pantano della domanda totalizzante su da che parte stare. In questo modo, l’etica e la morale vengono eliminate.

Non è la vita di tutti che conta, ma la sopravvivenza dei Buoni e dei più Forti o dei Migliori. Noi contro loro, io o tu, la “sopravvivenza del più adatto”. In un mondo di abbondanza che può permettersi di buttare nella spazzatura 1,3 miliardi di tonnellate di cibo all’anno, mentre 30.000 persone muoiono di fame ogni giorno, questo è l’espressione di un disorientamento che serve solo alla classe che teme l’orientamento. Per loro la pace in tutte le sue forme è, per usare l’espressione di David Graeber, un pericolo mortale. Perché i molti che stanno in basso potrebbero rendersi conto che le cose non possono andare peggio senza i pochi che stanno in alto.

Lotta. Conflitto. Dissoluzione.

Nelle società sempre più dense stanno emergendo sempre più unità amministrative. Servono come punti di contatto per trovare un alloggio, cercare lavoro, richiedere gli assegni familiari e così via. Questo sembra positivo e idealmente dovrebbe esserlo. Tuttavia, le persone urbanizzate possono fare sempre meno da sole. Il dominio funzionale dell’amministrazione sta diventando evidente. Ciò che sembra irrilevante nei singoli casi ha effetti molto significativi. La burocrazia non è in grado di risolvere obiettivi generali, cioè problemi che riguardano tutti. Questo è a favore del neoliberismo, che si è diffuso in tutto il mondo come un velo scuro e sta portando all’estremo lo sfruttamento delle persone e della natura. Nulla viene risparmiato, tutto diventa merce. E le merci si vendono meglio quando scarseggiano.

Gli spazi urbani e la sfera digitale si stanno rivelando dei crogioli ideali. In essi, tutti competono con tutti, ovunque e in ogni momento, per ogni cosa: spazio abitativo, parcheggi, appuntamenti dal medico, posti all’asilo nido, posti di lavoro, numeri di like su Facebook o Instagram e così via.

In questo ambiente non esiste un “noi”, ma solo un “io”. Questo è fatale per l’interazione sociale. I valori condivisi, se ancora esistono, si perdono. La dissoluzione delle strutture sociali è completa quando si cerca nell’altro solo un valore di utilità, ma non si riconosce più il suo valore intrinseco.

Uno dei risultati è il conflitto, la guerra su piccola scala. Viene coltivato come una pianta preziosa; dopo tutto, c’è un enorme esercito di avvocati da sfamare. Solo in Germania gli avvocati ammessi all’albo sono oltre 165.000. Il loro numero è circa triplicato da quando la DDR è entrata a far parte della Repubblica Federale Tedesca.

La lotta competitiva viene portata in ogni angolo sotto lo pseudonimo di “competizione”. Tuttavia, la “competizione” non conosce perdenti, ma è un ciclo di sfida, tentativo, fallimento o successo, miglioramento e nuova sfida organizzato congiuntamente da agonista e antagonista. Se non c’è una controparte o se un partner domina permanentemente l’altro, la competizione è finita e si compete solo con se stessi.

Il mondo emotivo è devastato. Il consumo prende il posto dell’amore, dell’affetto e della tenerezza. Il dolore emotivo viene anestetizzato con le pillole, l’incoraggiamento e la vicinanza vengono cercati nel vuoto digitale. Il rapporto con il destino e la morte viene assicurato. La compassione lascia il posto all’indifferenza, la disponibilità all’imbambolamento. L’ego diventa sempre più smussato.

L’alienazione dagli altri e da se stessi ha superato il punto di fusione. La psiche è in agonia. Lo stato mentale dell’umanità ha raggiunto un livello allarmante. Nel 2019, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha sottolineato che un miliardo di persone vive con una malattia mentale. Secondo l’OMS, questa cifra è aumentata significativamente durante la pandemia da covid. I disturbi da depressione e ansia sono aumentati. Le cause sono molteplici: molestie, abusi, bullismo, violenza, richieste eccessive, stress persistente ecc. La soluzione offerta è quella di integrare la condizione nella normalità sociale, il che è utile per tutti coloro che ne sono affetti e di investire nel trattamento. Il problema rimane e si apre un nuovo mercato con opportunità future.

Il paradiso dei topi.

In queste circostanze, sembra comprensibile che le città diventino intelligenti, belle e pulite. Questo è rilassante e facile per i nervi, a patto che ci sia abbastanza spazio per tutti, cosa che già non avviene. Lo scienziato comportamentale statunitense John B. Calhoun (1917-1995) ha studiato le questioni relative alla crescita della popolazione. Ha osservato gli effetti del sovraffollamento sul comportamento sociale di topi e ratti. In uno dei suoi esperimenti più famosi, “Universo 25”, ha creato un ambiente di vita ideale per gli animali da laboratorio. Il “paradiso dei topi”, una prigione di lusso da cui non c’era via di scampo per i roditori, si è trasformata nel tempo prima in un manicomio e poi in un inferno.

In questo “universo”, strategie di sopravvivenza come la fuga o la ricerca di cibo erano obsolete. Non c’erano predatori e non c’era penuria. I materiali da costruzione per i nidi, il cibo e l’acqua erano abbondanti. I topi ricevevano cure mediche, le loro gabbie venivano pulite regolarmente e persino il clima era ottimizzato per una perfetta “esistenza da topo”. Solo lo spazio nel recinto, che aveva la forma di una vasca, era limitato. Pareti alte 1,40 metri circondavano l’area di base di circa 6,6 metri quadrati.

I topi si riproducevano a piacimento e la popolazione cresceva. Al suo apice, ha raggiunto i 2.200 animali. Meno spazio c’era per ogni animale, più emergevano modelli di comportamento anormali e distruttivi. Calhoun chiamava “i belli” gli individui passivi che si ritiravano da tutte le interazioni sociali in una situazione di sovraffollamento. Erano preoccupati solo di se stessi.

Ma non è tutto. Calhoun osservò, ad esempio, un crescente abbandono della prole, iperattività, aumento dell’aggressività, devianza sessuale e cannibalismo. All’ipersessualizzazione seguì l’asessualità. La riproduzione diminuì, la mortalità aumentò, la violenza casuale entrò in scena. Il comportamento patologico, che da tempo era sfuggito a ogni controllo, si intensificò. La società dei topi andò letteralmente in pezzi.

Nel 1962, Calhoun pubblicò l’articolo “Densità della popolazione e patologia sociale” sulla rivista “Scientific American”. In esso conclude che la sovrappopolazione comporta il collasso sociale, seguito dall’estinzione. Calhoun descrisse il collasso totale del comportamento derivante dal sovraffollamento con il termine di “fogna del comportamento”.

Ultima uscita verso il villaggio.

Va sottolineato che ciò che vale per i topi non è un modello per l’umanità. La Terra è troppo grande e la popolazione umana troppo piccola per questo, ma è una questione di principio, perché la concentrazione in uno spazio ristretto è il veleno. E questo non si neutralizza con più biciclette, meno asfalto o qualche albero in vaso.

“Il paragone non è che il sovraffollamento nei topi porti a una certa perdita di comportamento, ma che ciò avvenga anche negli esseri umani. Il paragone è che il sovraffollamento porta a un crollo del comportamento, a partire dai comportamenti più complessi per quella specie. Ciò che è complesso per un topo sarà molto diverso da ciò che è complesso per un uomo”. 

La soluzione sembra banale, ma è ovvia: agire in modo aciclico e liberare le persone nella natura. Il denaro non è un problema. Invece di investire somme enormi per trasformare le città in mega e smart city e sprecare miliardi di euro in carri armati, jet da combattimento e lanciarazzi, possiamo investire massicciamente nella vastità delle aree rurali.

Esistono le possibilità organizzative e logistiche per fornire risorse, energia, materiali da costruzione, connessioni internet e tutto ciò che serve per far rivivere le piccole comunità di villaggio abbandonate o per crearne di nuove. Questi nuovi villaggi, descritti in dettaglio dal laboratorio del futuro GIVE, possono creare strutture produttive proprie e sviluppare cicli economici che consentano loro di essere autosufficienti, ma anche di cooperare ampiamente e persino di impegnarsi nel commercio globale.

Si tratta di un programma di rinaturalizzazione della propria specie, in cui una sfida ci attende fin dall’inizio: consentire l’idea che sia possibile e socialmente necessario distribuire terre in tutto il mondo e costruire villaggi per evitare l’estinzione sociale nelle gabbie dorate.

Fonte: https://www.pressenza.com

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