Libri digitali e la fine della scrittura a mano.

di Asteria Casadio. Pochi giorni prima che andasse in scena il balletto della crisi di governo, il Ministro Carrozza ha firmato il decreto per la digitalizzazione dei testi scolastici che avverrebbe, secondo quanto si apprende, gradatamente, a partire dal prossimo anno 2014-15, e riguarderebbe unicamente i nuovi testi da adottare e non quelli riconfermati. Insomma, una rivoluzione all’italiana, per far contenti tutti e nessuno e, tra sostenitori e contrari, pesano sulla scuola quei dieci milioni stanziati per il rafforzamento delle competenze digitali di una classe insegnante stanca e, in vero, molto più preoccupata dello stato degli edifici in cui è costretta a lavorare (trentamila le strutture a rischio secondo l’Ance) che dell’annoso problema della modernizzazione a tutti i costi. E se è vero che il buongiorno si vede dal mattino, non sarà fantascienza ipotizzare anche per la nostra Italia – col dovuto ritardo con cui spesso prendiamo il buono e il cattivo esempio dagli Stati Uniti – la revoca dell’obbligatorietà dell’insegnamento della scrittura a mano imposta, ormai un anno fa, ai suoi docenti, dal Dipartimento di Istruzione dell’Indiana, che ha reso imprescindibile quello dell’utilizzo della tastiera; e se la notizia, presa così da un pubblico di fruitori di ipad, tablet, smartphone ecc, potrebbe apparire normale, se si pensa che davanti a quelle tastiere sono posti dei bambini di sei anni o meno, il gioco cambia completamente. E poi, per una volta, ci sia concesso un giudizio datato e anti futurista: ma che brutta quella comunicazione anonima che fa di ciascuno un foglio digitale in caratteri prestabiliti dai computers, quanta tristezza che si porta dietro l’ipotetica morte della scrittura a mano, tristezza non certo dovuta alla fine di una tradizione perpetuata da secoli, come se l’utilizzo di penna e la carta possa essere considerato mera abitudine superabile da più nuove modalità. La grafia di ciascuno racconta più di quanto si dica, descrive e vive; la grafia parla e a volte piange, a volte trema e pesa sulla carta; la grafia soffre o ride, e quando ride è piena di voli, di bellezza e della cura che chi scrive infonde ai segni, come ad un regalo. La scrittura a mano invecchia e soprattutto resta, resiste, dura persino oltre chi ha vergato quelle parole sulla carta; e se è vero che lo stesso compito è affidato a files e cartelle multimediali, tra un biglietto sgualcito e un foglio word non c’è competizione se non quella possibile tra le parole dette e gli emoticons che accompagnano spesso la comunicazione digitale. Assurdo voler negare ai nostri nipoti o forse, peggio, già ai nostri figli, la meraviglia che suscita quel sentimento di riscoperta che accompagna il ritrovamento di un vecchio biglietto ricevuto, soprattutto quando esso diventa traccia di un percorso finito, di chi non c’è più; assurdo voler negare – cosa che accadrà già con l’abbandono della carta a favore dei libri digitali – la possibilità dello “stare” che lettura e scrittura su foglio impongono, quello stare intimo e privato che si ha con le pagine, quelle vere, che si possono anche strappare, ma non cancellare, che si possono annusare e sentire. Sarà anacronistico, ma se la modernità deve coincidere con una semplificazione che sa tanto di abbandono, forse non ne vale troppo la pena, specie quando il decantato risparmio economico che deriverebbe dalla rivoluzione digitale non è che infinitesimale, come da più parti è stato dimostrato. Eppure non ce l’avevano detto che le emozioni, nel mondo delle banche e degli affari, della modernità forzata, non valgono che pochi euro.

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