Leopolda, il congresso della casta che comanda l’Italia.

di Luca Telese. Il congresso della casta e i cori ultras. Era iniziata come l’adunata dei talenti, come un convegno di futorologia sull’Italia che verrà.
Ma ieri la settima Leopolda sembrava il congresso della Casta, una adunata di Ultras che con toni da stadio – come ha detto il leader della minoranza Dem – Roberto Speranza – scandiscono cori contro chi nel Pd si oppone a Matteo Renzi e gridano: “Fuori! Fuori!”.
Sette anni fa la Leopolda era il palcoscenico di un gruppo di ragazzi impegnati in politica, di intellettuali di successo, e di outsider che tentavano un assalto al cielo all’insegna dello slogan “Cambiamo L’Italia”.
Ambiziosi o coraggiosi, questo era lo stato d’animo, la condizione corsara, il sentimento. Oggi, in quella stessa sala, in mezzo ai tavolini allestiti come in un raffinato caffè del centro, c’è la nomenclatura che governa l’Italia, e che alza la voce per auspicare una purga di partito, che si radicalizza nell’invettiva contro una parte della sinistra.
Ma poi c’è lui, il leader, Matteo Renzi. Sette anni fa era un Golden boy simpatico è capace di accendere speranze, oggi sembra un capotribù che difende il proprio territorio con rabbia e furore. Sul Corriere della Sera, Oscar Farinetti, uno degli uomini più vicini al premier, gli offre una sorta di precetto: “Gli consiglio di non cadere nella sindrome del primo della classe. Anche perché a volte risulta antipatico, anche quando dice cose vere”.
Secondo il patron di Eataly (che è anche uno dei suoi migliori amici) il premier dovrebbe rivelare le sue paure e i suoi timori. E in caso di sconfitta al referendum avrebbe solo una via: “Si dimette e si riparte, quante volte è capitato?”. Ieri sembrava che tutta quella rabbia e quei cori fossero soprattutto una invettiva contro questa eventualità.
Il Matteo che è andato ospite da Giovanni Minoli, infatti, sembrava un altro, sembrava davvero il capo della curva orgoglioso della sua forza barbarica: “Sono talvolta troppo cattivo, troppo arrogante, e anche troppo impulsivo”. Minoli, quasi stupito: “E come lo combatte?”. Renzi: “So che sono simpatici i buoni, però… è un esercizio quotidiano faticoso, dovrei essere meno cattivo, lo so”. Mica male.
Forse il Renzi dei cori e quello della “cattiveria” confessata a Minoli con un momento di trasparenza sublime al confine tra la vanità e la sincerità, il Renzi “disperato e rabbioso” per i cattivi sondaggi che carica il suo popolo contro il nemico e grida dal palco della Leopolda che non ci saranno “governicchi” (cioè senza di lui) è allo stesso tempo la soluzione del problema, ma è anche il problema. È un Renzi che segue le proprie orme, ripercorre il grido di guerra che lo ha portato portato al potere, ma non si rende conto che dovrebbe cambiare passo.
Non puoi fare l’antipolitica quando sei seduto nel Palazzo, non puoi chiamare ad una guerra Santa contro gli infedeli, nel partito, da una sede che – fra l’altro – non è nemmeno di partito.
La grazia di stato è – nel migliore dei casi – il sentimento che consente ad un leader di accogliere anche chi è lontano da se, di aumentare il suo grado di rappresentanza. Il coro gridato della Leopolda, con gli ex ragazzi, oggi tutti impiegati con stipendi a sei zeri nello stato e nel parastato, anziché aprirsi alla saggezza mostrano la grinta, esibiscono “cattiveria”.
Potrebbero vincere anche così, ma questo rende il voto del 4 dicembre una roulette russa. Con la cattiveria si può vincere, infatti, ma è molto difficile governare.

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