Il ’68, una rivoluzione impossibile.

di Clemente Sparaco. In Occidente, una nuova generazione, nata negli anni della guerra o dell’immediato dopoguerra,

formata dall’esperienza “del boom economico che era seguito al conflitto, con l’allargamento delle possibilità sociali che aveva comportato”, “proprio perché aveva profondamente assorbito l’ideologia dell’abbondanza (…), si ribellava contro l’autocompiacimento del progresso industriale e dell’opulenza, rivendicando un senso e un significato per la propria vita” (Heller A., Fehér F., La condizione politica postmoderna). Si rivoltava di fronte ad “un modello di “società opulenta” incapace di rispondere ad attese di profilo diverso dall’innalzamento del livello materiale di vita” (Peserico E., Il Sessantotto italiano – 1968-1977). Giudicava non solo “inadeguata, piena di ingiustizia, piena di egoismo e di brama di possesso, l’opera di ricostruzione del dopoguerra”, ma guardava “all’intero svolgimento della storia, a partire dall’epoca del trionfo del cristianesimo, come a un errore e a un insuccesso” (Ratzinger J., Introduzione al Cristianesimo). Contestava il sistema liberal capitalistico, che lasciava inalterate povertà e disuguaglianze effetto delle sperequazioni sociali. Contestava il mondo diviso, le guerre e le ingiustizie. Contestava la società, che giudicava ingessata e il costume, che giudicava repressivo. Contestava il sistema educativo, che giudicava autoritario e repressivo, perché non prevedeva spiegazioni, ma solo coaptazioni (Ravera L., Ricordi di una ex bambina, in Sessantotto: mito e realtà). Pertanto, proprio nell’Università, considerata un’istituzione decrepita e autoritaria, la contestazione dell’esistente iniziò. Scioperi, occupazioni e seminari autogestiti divennero allora prassi comune. Nel movimento c’erano varie componenti e dinamiche: le occupazioni contro la riforma universitaria, le manifestazioni contro la guerra nel Vietnam, il terzomondismo, la scuola di Francoforte, il rapporto tra studenti e operai, il mito del Che e della ribellione continua, l’utopia della rivoluzione. Di fronte ad una democrazia bloccata si tentava di innovare dal basso. Si smascheravano le istituzioni in quanto funzioni di potere; tutte le istituzioni: la scuola, i partiti, la famiglia, la Chiesa. Si voleva una società senza poveri e senza ricchi, dove tutti potessero studiare e coltivare il piacere, dove i deboli sarebbero stati sostenuti da un mondo solidale e più giusto, dove Dio non sarebbe più esistito e la gente avrebbe cercato dentro (di noi) la pace e l’armonia. Si mettevano in discussione la selezione e la scuola di classe. Si diffondeva un modo di stare insieme collettivo che si esaltava nei cortei, nelle azioni di lotta etc.. Da un certo punto di vista, “il 68 è l’elevazione di un dato anagrafico a valore. Nascono la generazione come patria globale e la lotta di classe generazionale”). E della giovinezza il ’68 ebbe vizi e virtù. Le domande dei giovani erano, infatti, fondate: “la voglia di autenticità, pienezza e leggerezza, il sogno di liberarsi dalle piccole, stanche bugie, dai falsi totem e logori tabù, dalle meschine sicurezze della vita comoda centrata sui consumi…” (Veneziani M., Rovesciare il ’68). Autentiche erano l’insoddisfazione e l’ansia di rinnovamento, ma si travestirono di un linguaggio retorico, che, lungi dal cambiare il mondo, ingenerò un nuovo conformismo. “Nel bagliore di alcuni istanti privilegiati del 1968 – ha scritto C. Lévinas – subito spenti in un linguaggio non meno conformista e parolaio di quello che esso avrebbe sostituito – la giovinezza è consistita nel contestare un mondo denunziato da tempo” (Lévinas E., Umanesimo dell’altro uomo). Le risposte, di conseguenza, o non ci furono o furono peggiori dei disagi che le avevano generate. Del resto, i giovani erano impazienti: volevano tutto e subito. E la loro fu una rivoluzione impaziente, segnata da una sorta di “egocentrismo generazionale e soggettivo”, che a sua volta “fu l’effetto più profondo del 68”. “I contestatori vivevano con la convinzione che il mondo si svegliasse con loro, che la libertà nascesse da loro, che l’Umanità si redimesse grazie a loro. Millenni di sapere rottamati, consolidati costumi che volavano come stracci” (Veneziani M., Rovesciare il ’68). Perciò, fin dall’inizio fu una rivoluzione impossibile.

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