GODOT.
di Marina Serafini. Osservo una foto scattata da me mesi fa: fiori dai colori accesi, come un festone, ricoprire il balcone di una casa. Il cielo azzurro nello sfondo: era marzo e la stagione sembrava deridere questi esseri umani confusi, intontiti e impauriti dalla soverchiante politica governativa finalizzata a contrastare il brutto fenomeno oscuro: la Pandemia.
Fiumi di inchiostro versati sul tema… Chi si angosciava, chi ne rideva, chi iniziava a comprenderne la vera portata…
Ci siamo svegliati nel nuovo mondo un pò a rilento, ognuno a suo modo, con tempi diversi e in piena incredulità.
Quando le forze armate hanno occupato le strade vuote, ed anche i cieli azzurri, e i cori dai balconi hanno stracciato il silenzio urbano con l’intoccabile invadenza delle buone intenzioni, abbiamo iniziato a renderci conto di come tutto stava cambiando.
Sono trascorsi mesi e stagioni, e il problema ha raggiunto dimensioni inquietanti. Le nostre coscienza fluttuano tra ipotesi e pensieri legati ad un ignoto futuro.
I bambini vengono istruiti nelle scuole, un po’ aperte e un po’ chiuse, ad evitare i compagni, a non scambiare con gli altri le cose, a non abbracciare chi vuole star loro vicino. I ragazzi vengono addestrati al sospetto e alla delazione, e gli adulti si fanno censori e supervisori morali.
I nostri volti, parzialmente coperti da bavagli di forme varie più o meno inquietanti, esibiti con una certa mestizia, senza aver davvero proprio capito a quale specifico scopo indossarli.
Non si vede un sorriso, e se non fosse per gli occhi vivaci di alcuni, sembriamo robot inespressivi: ci spostiamo da un luogo ad un altro senza più soffermarci con gli altri; pochi scambi e rapidi gesti distanti.
Non riconosco più questo mondo.
Il bimbo di un mio conoscente, un bimbo di pochi anni, ha riportato a casa da scuola una nota per non aver rispettato il distanziamento sociale: atto di necessità incontestabile e paradossale al contempo.
I brividi percorrono il mio cuore nell’avvertire quella strana atmosfera di cui ho letto nei libri di scuola, e mi deprimo a sentire le mie gravi parole, espresse a gran voce e con rabbia ostinata, secondo cui gli orrori del nostro passato non pretendono la necessità di memoria, ma l’attenzione di chi non deve ripetere.
Non si é trattato di eventi eccezionali – a differenza di quanto, per ipocrisia e per immensa vergogna, insistiamo a ridirci: essi rimangono in noi perché appartengono alla nostra realtà più profonda.
Abbiamo attuato e nutrito eventi nefandi perché ci è dato farli accadere, e ci è dato purtroppo il potere che questo accada di nuovo.
In brutale onestà: quelli di allora siamo quelli di adesso: la storia insegna solo a chi vuole o riesce ad apprendere.
Per il resto, essa scorre, con il nostro tempo, come il vento sul mare: veloce, più o meno intensa, e svanisce…
Da alcune ore un’altra triste parola, evocatrice di orrori passati, rimbalza da una schermata a un discorso: il coprifuoco…
Un sorriso increscioso e poi lo spavento.
Ma cosa stiamo facendo? Dove spinge il regista di questa strana commedia in cui tutti si aspetta Godot, che ha la veste del farmaco sacro e della soluzione geniale?
E ci dimentichiamo del resto, mentre ci sforziamo di evitare coloro con cui cooperare.
La confusione che il timore produce manda in pezzi ogni possibile azione, e la soluzione tarda sempre più ad arrivare.
Le speranze offuscate da un crescente senso di arresa, in un gravoso cammino alla cieca.
Qui intorno non vedo più nemmeno i bambini giocare all’aperto, le biciclettine dai colori accesi; non sento le loro acute vocine nell’aria, a costellare il cinguettio diffuso tra i rami.
La austerità che ci viene richiesta denuncia il vestito del re, quello nudo, e le festività commerciali assurgono a demone ostile. Niente riunioni, nessuna allegria… La solitudine sobria della monotonia quotidiana: il lavoro e lo stare in casa.
Ma il sole brilla ancora lassù, e illumina il giardino che percorro lentamente guardandomi attorno. Questa aria frizzante, l’urlo graffiante dei corvi e il raglio di quel povero mulo… Io continuo a sentirli, e ancora io sento i miei piedi poggiare su questa umida terra.
La luce non è stata ancora oscurata.
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