Dov’è finito il fiume di Pontecorvo?

di Maria Pia Caporuscio. Il ponte che dava il nome al paese è ancora lì al suo posto, ma il fiume che scorreva sotto di lui superbo e maestoso, non c’è più. Pontecorvo è un antico paese nella provincia di Frosinone raso al suolo dalla seconda guerra mondiale e rinato dalle sue macerie. Un povero paese che dopo essere stato ferito a morte dalle bombe, è stato ucciso una seconda volta dai “cannibali” nascosti dietro il nome “progresso” e depredato della sola ricchezza che possedeva: il fiume Liri.
Una multinazionale “convinse” le autorità dell’epoca a costruire una diga a Nord del paese e quando questo avvenne, del fiume rimase soltanto il suo letto vuoto. L’acqua limpida e viva che saltava festosa dalle rocce e il rumore che faceva precipitando, era la musica stessa di questo paese. Era il benvenuto al visitatore e la compagna fedele del vecchietto, che si fermava sul ponte a prendere il fresco nelle giornate di calura. Era il punto d’incontro delle comari che sciorinavano gli ultimi pettegolezzi. Era il divertimento dei discoli, che si tuffavano a capo fitto per raggiungere l’altra sponda, sotto lo sguardo di disapprovazione di chi queste cose, non aveva mai fatto. Non c’è più la cascata che troneggiava al centro del fiume ove qualche incauto barcaiolo si capovolgeva, attirando l’attenzione di tutti e facendo accorrere al salvataggio i raccoglitori di ghiaia. Quella cascata che lanciava nel cielo una miriade di bollicine candide è ora un ammasso di rovi. I mulinelli e i gorghi profondi, delle pozzanghere oscene. Le rocce levigate e lucide come cristalli, sono ruvide e scure e intorno ad esse e sopra di esse, ortiche e sterpi. Quelle rocce, un tempo vive, sembrano reperti archeologici dal sapore di morte. Una schiuma giallognola galleggia sulle pozzanghere e dove il fiume era più profondo, cocci, barattoli, e fanghiglia frammista a rifiuti. Non c’è più la ghiaia lucida e al suo posto crescono sterpi. Non ci sono gli operai a torso nudo, abbronzati come i negri d’America, a caricarla sui camion per l’utilizzo nell’edilizia. I salici e i pioppi che lo costeggiavano e parevano cantare nenie dolcissime portate dal vento, dove sono? Dei pioppi, dei salici, non rimane nemmeno un tronco a testimoniare la loro passata esistenza. Quel fiume dove le donne del paese lavavano i panni è morto per sempre! Lavare i panni al fiume era un rito, oltre che una necessità, non essendo le case fornite di acqua a quel tempo. Vedere le donne lavare i panni era come guardare un quadro d’autore. Stendevano le lenzuola sull’acqua e le sbattevano energicamente contro le rocce , poi si aiutavano a vicenda per strizzarle, prendendo il lenzuolo ai due lati, attorcigliandolo come un gigantesco salame, oppure lo stendevano sui cespugli ad asciugare al sole. Ogni tanto qualcuna si metteva a cantare subito imitata dalle altre. Ad esse si univano i gruppetti di lavandaie più a valle e alzavano il tono, per essere udite da un capo all’altro. Si univano al coro anche i venditori di ghiaia e i fabbricanti di blocchetti di cemento, di quella minuscola fabbrica poco lontano, che utilizzava nell’impasto la ghiaia del fiume. Cantavano a squarciagola incuranti della fatica o forse proprio per vincere la fatica di quel duro lavoro, gareggiando a chi cantava più forte. Ne nasceva un coro discorde, un orchestra di strumenti naturali, antica come il tempo. Suoni acuti e aspri sovrastavano quelli più bassi e profondi. Musica varia che nessun maestro potrebbe inventare e il più sofisticato strumento musicale, non riuscirebbe ad imitare quei suoni unici, come la vita. Voci acute e incolte ma vive e vere come l’acqua, dove lavavano i panni, forti come la pietra dove li sbattevano e dolci come mani che lavorano. Era la voce dei secoli: tamburi e corni, clarinetti e tromboni o cani e uccelli, o lupi e leoni o pioggia e grandine e vento e sole, che picchiava inesorabile sulle loro teste. Era la sinfonia dolce delle stagioni, la melodia dell’eternità e non può esserci violino o viola, che riesca ad eguagliare la bellezza di quei suoni nati dall’acqua, dalle rocce, dalla terra e dalla vita, che scorreva nelle loro vene. Questa violenza compiuta contro un paese innocente, contro gente semplice trattata come pezzenti di cui non si tiene alcun conto. Questo infame sistema dove chi più ha più deve avere e chi meno possiede meno ancora deve possedere, è un crimine contro natura. La Terra appartiene alla Terra e l’acqua ai suoi fiumi e nessuno deve arrogarsi il diritto di appropriarsene, si tratti di un capo di Stato o multinazionale che sia! Non c’è stata una voce che si sia alzata per fermare uno scempio che privava un paese di godere di un bene che né i governanti o le multinazionali gli avevano regalato. Pontecorvo, un paese antico e nobile umiliato e ucciso dall’ingordigia di esseri senza scrupoli!

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