Caso Orlandi, ombre e sospetti.

di Mario Barbato. La vicenda di Emanuela Orlandi, la ragazza di quindici scomparsa a Roma il 22 giugno 1983, dopo essere uscita da una scuola di musica, dove studiava canto corale, pianoforte e flauto traverso, poteva essere risolto tanto tempo fa se non fosse stato intossicato da piste ricche di fantasia ma povere di fatti concreti.

La storia dello zio Mario Meneguzzi, chiamato in causa dalla Procura di Roma come indiziato della sparizione della nipote, ha fatto storcere il naso a molte persone, convinte che si sia trattato di un depistaggio del Vaticano per allontanare i sospetti da sé e far ricadere la colpa sulla famiglia Orlandi che da anni cerca la verità sulla sorte della congiunta.

In realtà, diversamente da quanto si pensa, il nome di Mario Meneguzzi era saltato fuori già a metà agosto del 1983 quando, secondo il giornalista Tommaso Nelli, un anonimo aveva inviato una lettera al pm Domenico Sica, accusando Mario Meneguzzi di essere responsabile della scomparsa di Emanuela Orlandi e di aver molestato anche la sorella maggiore, Natalina Orlandi, all’epoca una ragazza di ventuno anni. Convocati dai carabinieri, il 30 agosto, Natalina e il suo fidanzato, Andrea Ferraris, attualmente suo marito, avevano confermato le molestie dell’uomo, facendole mettere anche a verbale. Quella confessione dovette essere così rilevante da convincere i militari dell’Arma a prelevare Natalina e ad accompagnarla davanti al magistrato Domenico Sica, per farsi raccontare cosa fosse successo tra lei e lo zio.

Dopo l’interrogatorio, la Procura di Roma inviò una informativa alla Santa Sede per verificare l’attendibilità della rivelazione di Natalina, mettendo in moto uno scambio epistolare tra l’allora segretario di Stato Vaticano, Agostino Casaroli, e il sacerdote confessore della famiglia Orlandi, monsignor Josè Alzate, trasferito nel frattempo in Colombia. La risposta del prelato non si era fatta attendere e, in un documento datato 8 settembre 1983, confermava le molestie sessuali che nel 1978 lo zio Mario aveva perpetrato nei confronti della nipote: “Sì, è vero, Natalina è stata oggetto di attenzioni morbose da parte dello zio, me lo confidò terrorizzata: le era stato intimato di tacere oppure avrebbe perso il lavoro alla Camera dei Deputati dove Meneguzzi, che gestiva il bar, la aveva fatta assumere qualche tempo prima”.

Domenico Sica, che stava indagando sulla scomparsa di Emanuela Orlandi dopo aver preso il posto di Margherita Gerunda, che fin dall’inizio sospettava un delitto a sfondo sessuale, cominciò a sospettare che lo zio Mario potesse avere qualcosa a che fare anche con la scomparsa della nipote Emanuela. Sica fece anche pedinare Meneguzzi, ma l’uomo, evidentemente mosso da un atteggiamento cauto e circospetto, si accorse di essere seguito e il pedinamento andò in fumo. Domenico Sica non farà altre indagini su Meneguzzi, disinteressandosi anche della pista di un fantomatico rapimento politico messo in atto per scambiare Emanuela Orlandi con il terrorista Ali Agca, lasciando la patata bollente a Ilario Martella, perché convinto che la scomparsa di Emanuela Orlandi fosse una storia tra lo zio e la nipote. Una convinzione giustificata proprio dal comportamento guardingo dell’uomo e la cui colpa non potevano più essere provata dopo il fallito pedinamento, poiché Meneguzzi, sapendo di essere finito nel mirino degli inquirenti, si sarebbe comportato di conseguenza.

La famiglia Meneguzzi ha sempre respinto qualsiasi ipotesi che il loro congiunto potesse essere coinvolto nel dramma di Emanuela, affermando che l’uomo si gettò a capofitto nel caso, prendendo la situazione in mano. Questo è vero. Ma è anche vero l’intervento dello zio determinò gravi riflessi sulle indagini da parte degli investigatori. Fu lui a ventilare per la prima volta l’ipotesi di un rapimento, come riporta un lancio dell’Ansa del 24 giugno 1983, quando gli investigatori stavano ancora pensando a una scappatella adolescenziale. Fu lui a far pubblicare il numero di telefono di casa Orlandi sui giornali e sui manifesti che tappezzarono i muri di Roma senza consultarsi prima con gli inquirenti e spalancando le porte a una serie di testimoni che diedero informazioni false e fuorvianti. E fu sempre lui a tenere all’oscuro gli inquirenti del contenuto delle conversazioni che intratteneva con i presunti rapitori che non fornirono mai una prova che la ragazza fosse viva e si trovasse nelle loro mani, ma stranamente fornirono molti dettagli sulla ragazza. Particolari che potevano essere conosciuti solo dalla cerchia familiare e amicale della ragazza vaticana, alimentando il sospetto che nell’ambiente degli Orlandi ci fosse una talpa.

Il ruolo di mediatore di Mario Meneguzzi finì il 22 luglio 1983, lasciando il posto all’avvocato Gennaro Egidio, un uomo legato al Sisde. Fu lo stesso Meneguzzi a dirlo durante una concitata conferenza stampa. Lo disse in televisione e invitò i rapitori a rivolgersi a lui per tutte le questioni connesse con il caso Orlandi oppure attraverso la linea riservata aperta con il Vaticano. Fu lo stesso Meneguzzi, durante una dichiarazione rilasciata al Corriere della Sera, il 28 luglio 1983, a dir di aver suggerito l’avvocato Gennaro Egidio agli Orlandi perché lo riteneva più adatto a trattare “questo genere di cose”. Di quali genere di cose parlasse non si sa. Si sa solo che nel 2002, parlando con il giornalista Pino Nicotri, Egidio rivelò che quello di Emanuela non era stato un rapimento, ma una scomparsa e ritenne opportuno indagare meglio nella cerchia amicale che ruotava intorno alla famiglia degli Orlandi. Cosa che gli inquirenti avevano fatto solo in modo superficiale.

Pietro Orlandi, durante una conferenza stampa, ha difeso lo zio Mario, affermando che l’uomo il giorno della scomparsa di Emanuela era in vacanza a Torano, un posto “lontanissimo”. In realtà non ci sono prove che Mario Meneguzzi quel giorno si trovasse davvero a Torano e le testimonianze dei familiari, in assenza di altri riscontri oggettivi, valgono meno di zero. Inoltre, Torano non è “lontanissima”. Dista cento chilometri da Roma. Un’ora di viaggio. Se si considera che Ercole Orlandi disse di aver telefonato al cognato verso mezzanotte per chiedere anche il suo aiuto, cinque ore dopo la scomparsa della figlia Emanuela, Mario Meneguzzi, in linea teorica, avrebbe avuto tutto il tempo di andare a Roma e tornare a Torano in poco tempo, senza che nessuno se ne accorgesse e creandosi pure un alibi.

C’è poi il dubbio riguardante le parole di Pietro Meneguzzi, figlio di Mario, che in una intervista a Quarto Grado ha detto che, la sera della scomparsa di Emanuela, Ercole Orlandi chiamò verso le dieci di sera per parlare con il cognato Mario nella sua casa di Roma. Pietro però disse che il papà non c’era e che si trovava a Torano. Resta da capire come mai Ercole, dopo quella telefonata, decise di chiamare il cognato solo verso mezzanotte. Forse perché alle dieci di sera aveva chiamato a Torano e non aveva trovato nessuno? Se così fosse, dov’era Mario Meneguzzi tra le dieci di sera e mezzanotte? Inoltre, Pietro Meneguzzi ha affermato che a Torano c’era anche la zia Anna Orlandi. Ora, poiché Anna Orlandi abitava nella casa del fratello Ercole in Vaticano, il papà di Emanuela avrebbe dovuto sapere che Mario Meneguzzi si trovava a Torano, quindi perché chiamare prima a Roma? Nessuno si preoccupò di sapere dov’era e cosa stava facendo Mario Meneguzzi nella fascia oraria che va tra le sette di sera e mezzanotte? Fu gravissimo che non si fosse adeguatamente indagato in questo senso e si preferì seguire, nel corso degli anni, tutte le piste esoteriche e apodittiche che si sono trascinate fino a oggi.

Così come è grave che non si fosse verificata, all’epoca, la testimonianza di un vigile urbano, Alfredo Sambucco, che nel 1985 riferì ai magistrati di aver visto il pomeriggio del 22 giugno 1983, intorno alle cinque, un uomo davanti al Senato parlare con una ragazza simile a Emanuela. L’identikit dell’uomo tracciato dal vigile aveva una sorprendente somiglianza con Mario Meneguzzi. Una somiglianza fatta notare già da Pino Nicotri in un articolo pubblicato nel 2019 e che una manina anonima fece stranamente sparire. Forse perché indagare sulla pista familiare avrebbe impedito di portare avanti il canovaccio della pista vaticana che sembra fare più notizia rispetto a un parente?

Quello che però fece rizzare le antenne agli inquirenti fu il comportamento eccessivamente “interessato” di Mario Meneguzzi che, pur non essendo né il padre né il nonno né il bisnonno di Emanuela, pressava continuamente la Procura di Roma per sapere cosa stessero appurando gli inquirenti, come se avesse voluto informarsi per prendere le opportune contromosse e tutelare sé stesso dall’inchiesta, cosa che insospettì Margherita Gerunda che lo tenne lontano dalle indagini. Fu la stessa Gerunda a dirlo a Pino Nicotri: “Meneguzzi aveva sin dal principio dato adito a sospetti per il suo comportamento eccessivamente presenzialista. Sembrava che, più che essere di aiuto alle indagini, volesse conoscere cosa veniva scoperto dagli inquirenti. Decidemmo di conseguenza di tenerlo il più possibile a distanza”.

Pietro Orlandi ha sempre chiesto che gli inquirenti indagassero a trecentosessanta gradi sulla scomparsa di sua sorella, ma non ha mai voluto che gli investigatori ficcassero il naso nel suo ambiente familiare. Cosa strana visto che le statistiche dicono che nella maggior parte dei casi di violenza su una donna o su una ragazza il colpevole è quasi sempre un conoscente della vittima. Successe così con Stefania Brini, una ragazza di diciassette anni, violentata e uccisa dallo zio a Roma nel 1984. Così come è successo con Elisa Claps, sparita nel 1993 e ritrovata morta nel soffitto di una chiesa di Potenza nel 2010. Anche in quel caso si parlò di intrighi e di misteri che chiamarono in causa la Chiesa, per poi scoprire che l’assassino era stato uno spasimante rifiutato, Danilo Restivo, che nel frattempo si era trasferito in Inghilterra e aveva fatto a pezzi un’altra donna, prima di beccarsi l’ergastolo con la reputazione di essere un serial killer.

La convinzione che Emanuela Orlandi, la sera di estate del 1983, non fosse stata rapita da nessuno pervase anche gli investigatori dell’epoca, i quali ritennero molto probabile che la ragazza fosse stata convinta con la persuasione o contro la sua volontà a non tornare a casa dopo l’incontro con una persona conosciuta o con un amico occasionale. Dello stesso parere fu anche il magistrato Margherita Gerunda, persuasa che Emanuela Orlandi finì vittima di un delitto a sfondo sessuale commesso da qualcuno che la ragazza conosceva bene e di cui si fidava. Lo disse lei stessa a Pino Nicotri, il giornalista che più di tutti ha indagato sul mistero della studentessa sparita nel cuore della capitale: Mi feci subito l’idea, come del resto tutti gli investigatori, che la ragazza fosse stata attirata in un agguato, violentata e uccisa, comunque morta in seguito alle violenze. Certo non ci sentivamo di esternarlo perché sarebbe stato crudele nei confronti della famiglia. Tale convinzione è tuttora confermata dai fatti successivi”. Sulla stessa linea di pensiero fu anche Domenico Sica, secondo cui la giovane cittadina vaticana morì la sera stessa della sua scomparsa dopo un incontro avuto con “un adulto molto vicino alla ragazza”.

Spetterà adesso alla Procura di Roma capire se Mario Meneguzzi, morto nel frattempo nel 2009, potesse avere avuto qualche responsabilità nella scomparsa di Emanuela Orlandi oppure sia completamente estraneo alla vicenda. Così come sarebbe da capire come sia stato possibile avallare tutte le piste fantasiose che si sono trascinate negli anni, rivelandosi dei clamorosi bluff che hanno trasformato il caso Orlandi in uno spettacolo mediatico, un piatto troppo ghiotto, con un pubblico troppo malato di complotti per essere abbandonato. Un dramma storico che qualcuno ha pensato bene di sfruttare per ricavarne in qualche modo un tornaconto personale.

Ecco perché l’auspicio è che gli inquirenti seguano la pista familiare e amicale della ragazza, come stanno facendo attualmente. Raccogliendo tutti quegli indizi trascurati negli anni e che potrebbero essere utili per risolvere un mistero che dura oggettivamente da troppo tempo. Con la speranza di non farsi più  condizionare da quei racconti romanzati, puntualmente rilanciate dai media, che finirebbero solo per rendere complicata una verità che, invece, potrebbe rivelarsi drammaticamente più semplice di quanto finora è stato raccontato.

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