Verso il “tramonto” della inoppugnabilità “concettuale” dell’atto politico e di alta amministrazione.

di Luigi Giuseppe Papaleo. L’inoppugnabilità dei cc.dd. “atti politici” ovvero degli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico (contemplata nell’ultima parte dell’art.7 co.1  del Codice del processo amministrativo) trova il limite nei canoni di legalità cui la politica deve comunque attenersi nel rispetto dei principi fondamentali dello Stato di diritto.  

Secondo il Consiglio di Stato in sede consultiva, la norma richiamata “apparentemente” contrastante con l’art.113 Cost. che sancisce l’impugnabilità di tutti gli atti della pubblica amministrazione in sede giurisdizionale senza esclusioni o limitazioni per determinate categorie, è stata presumibilmente oggetto di una lettura costituzionalmente orientata offerta dalla Consulta (cfr. Sent. nr. 81 del 2012) cristallizzata nel principio di diritto secondo cui: “Ciò che importa ai fini dell’impugnabilità dinanzi al giudice amministrativo non è tanto la natura ‘politica’ o meno dell’atto quanto la sussistenza o meno di un vincolo giuridico posto all’esercizio del potere discrezionale”.  

Il discrimine dell’impugnabilità così prospettato farebbe sfumare le tradizionali categorie di “atto politico” e di “atto di alta amministrazione”. (Cfr. Cons. di Stato in sede consultiva- parere nr.2483 del 19/09/2019).

Luigi Giuseppe Papaleo
Giornalista Pubblicista

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