‘Vaffa’ al capufficio? Va bene, ma una tantum!

Mandare a “quel paese” il capo ufficio dicendoglielo in faccia, chiaro e tondo, senza mezzi termini, non sarà più passibile di licenziamento, purchè sia una tantum. Quindi un sano e liberatorio “vaffa” al diretto superiore si può intonare, basta che sia… una volta sola nell’arco della vita lavorativa! Insomma bisogna sapersela “giocare” bene, saper aspettare il momento buono, senza inutili e controproducenti sprechi. Attendere pazientemente la situazione giusta, magari per un pò mandare giù qualche boccone amaro, ma poi, quando proprio si è arrivati all’ultima goccia, quando proprio non se ne può più e possibilmente… prima di andare in pensione, liberarsi di quel peso e mandare il capo a quel paese, di santa ragione, con un sonoro… “vaffa!!!”. Dunque, via libera del ‘vaffa’ al capufficio, ma una tantum! A sancirlo è la Cassazione, sottolineando come l’offesa al superiore gerarchico – se resta circoscritta ad un episodio e non dà adito ad altre contrapposizioni nel tempo – non può essere sanzionata con il licenziamento. Togliersi un sassolino col superiore per una volta non «compromette il rapporto fiduciario con l’azienda». In questo modo, la sezione Lavoro ha bocciato il ricorso di un’azienda abruzzese, che si opponeva alla reintegra di un dipendente ‘reo’ di avere offeso la superiore gerarchica, mandandola sostanzialmente ‘a quel paese’. La lite giudiziaria – ricostruisce la sentenza 10426 – era scaturita soprattutto dal fatto che l’offesa aveva urtato il capufficio in quanto donna. Ne era seguito il licenziamento disciplinare il 21 ottobre 2005 poi annullato dal Tribunale di Chieti il 18 marzo 2009 alla luce del fatto che l’offesa era stata episodica. Inutile il ricorso dell’azienda in Cassazione volto a riottenere l’allontanamento del dipendente per la sua condotta «gravemente ingiuriosa e intimidatoria al superiore gerarchico donna deriso e apostrofato». Piazza Cavour ha respinto il ricorso dell’azienda e ha sottolineato che la motivazione della Corte d’appello dell’Aquila «appare congrua e logicamente coerente e supportata da precisi ed univoci riferimenti alle risultanze processuali che hanno consentito di ridimensionare la gravità dei fatti e di circoscrivere l’episodio che, sia pure censurabile, non dimostra la volontà» del dipendente «di sottrarsi alla disciplina aziendale e di insubordinarsi, essendo rimasto nei limiti di una intemperanza verbale». Ancorchè «stigmatizzabile», ma non meritevole di licenziamento. L’azienda dovrà anche rifondere l’avvocato del dipendente con 2.500 euro.

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