Post-verità, “fake news”, “bufale”, è tutta colpa di internet?

di Antonella Fancello. Ce la sentiamo ripetere spesso ultimamente: post-verità è la parola scelta dall’Oxford English Dictionary come parola dell’anno 2016. Secondo il celebre dizionario, nell’era delle post-verità ogni notizia viene percepita e accettata come vera soltanto sulla base di emozioni e sensazioni “sociali”: i “like” (i “mi piace” ad un post)
o il numero di “followers” (tecnicamente di persone che “seguono” sul social network colui che racconta la presunta “verità”), che decretano in maniera non facilmente controvertibile e virale una verità rendendola assoluta. Chi è vittima della post-verità non fa alcuna analisi sulla veridicità dei fatti (non fa cioè il così detto “fact-checking”, espressione giornalistica e che, oggi più che mai, si arricchisce di un significato più universalmente condiviso, essendo il concetto chiave che si contrappone alla post-verità). Il problema sorge quando, in una discussione caratterizzata da “post-verità”, i fatti oggettivi e chiaramente accertati, sono meno influenti nel formare l’opinione pubblica, rispetto ad appelli, emozioni, convinzioni personali che, incassando più “like”, rendono ingannevolmente “vero” un evento. Le fake news sono il risultato delle post-verità (letteralmente “false notizie”, più note a noi italiani come “bufale”). Esse generano traffico sul web, producono cioè “oro” per chi si approvvigiona quotidianamente dei consensi prodotti in un nano secondo da un post su un social network: la popolarità di quel post restituirà popolarità alla pagina che lo ospita che in questo modo acquisirà maggiore “credibilità” sui futuri investitori in quello spazio valorizzato dall’alto indice di coinvolgimento prodotto dalla fake news. Ma, andando oltre il business di chi amministra le pagine web, le conseguenze reali delle fake news sono devastanti: è accaduto che post popolari che diffondevano finte informazioni sanitarie siano servite a diffondere false cure “mediche” e a danneggiare campagne sanitarie pubbliche in diverse parti del mondo (vogliamo parlare del caso dei vaccini?). Notizie false online sono state usate per incitare la violenza in paesi come il Nepal e la Nigeria. Affermazioni fasulle su Facebook hanno portato al pestaggio e alla morte di una donna in Brasile e sono numerosi i commentatori ed osservatori che vedono nel risultato della Brexit e nell’elezione di Donald Trump l’enorme peso della post-verità sulla volontà espressa dai cittadini. C’è poi un altro fenomeno collaterale da non sottovalutare e che incide fortemente sulla nostra percezione della realtà: i miei “like” vengono ovviamente tracciati e sia a Facebook che a Google quei “like” servono per comporre il mio profilo che consentirà a loro di offrirmi “una finestra privilegiata”, i famosi suggerimenti, quasi esclusivamente su pagine e post che hanno affinità con il mio modo di pensare (dedotto dai miei “like” già espressi) per cui, col tempo, sarei portata a perdere la percezione della realtà non visualizzando più i contenuti di chi la pensa in maniera diversa da me (credo che ciò accada ad ogni tornata elettorale) avendo come la sensazione che il mio modo di pensare sia quello dominante. Deleterio! Il tema della post-verità, ampiamente dibattuto in queste settimane sui media tradizionali, scatena un confronto abbastanza interessante tra chi assegna delle responsabilità ai media sociali in quanto tali, invocando una sorta di controllo “superiore”, e chi invece riesce ad astrarre quello che, a parere mio, è il vero nocciolo della questione e cioè ammettere che non abbiamo ancora gli anticorpi necessari per distinguere ciò che è apparentemente vero da ciò che è falso. Non abbiamo mai avuto così tante informazioni a nostra disposizione e imparare a gestirle è fondamentale perché se molte buone informazioni possono fare di noi persone migliori, molte pessime e false informazioni considerate veritiere mettono seriamente a rischio la stessa vita civile e democratica di un paese. Esiste una difficoltà oggettiva, poiché nel marasma delle informazioni che vengono generate ogni istante sulla rete internet, dove chiunque può scrivere e non abbiamo quelle poche informazioni che prima venivano “filtrate” per i cittadini dagli organi di diffusione tradizionali, stampa e tv, va tutto bene, nel momento in cui ciò si traduce in maggior pluralismo ma è un male nel momento in cui non si possiedono le categorie mentali sufficientemente formate per discernere ciò che è vero da ciò che semplicemente è più popolare e non altrettanto vero. Qualche settimana fa, il Sole 24Ore ha riportato l’esito di una ricerca condotta negli Stati Uniti dalla Stanford University, su 7.804 studenti in 12 Stati tra il gennaio 2015 e giugno 2016, la più ampia mai realizzata, che sintetizzano in una parola l’abilità dei giovani di ragionare sull’attendibilità delle informazioni trovate su Internet: agghiacciante. Nella ricerca, per esempio, si legge che oltre l’80% degli studenti di scuola media non distingue su un sito Internet tra una pubblicità segnalata come tale e una notizia. Alcuni di loro hanno anche menzionato il fatto che si trattasse di un “contenuto sponsorizzato”, continuando comunque a ritenerlo una notizia attendibile (!). È evidente quanto le responsabilità dei genitori e della scuola aumentino in questo senso: internet andrebbe insegnato e spiegato ai ragazzi, “navigato” insieme a loro; per farlo bisogna conoscerlo, conoscerne a fondo i meccanismi e le dinamiche, senza sottovalutarne il potere e l’impatto. Ma la domanda è: siamo consapevoli di questa necessità? E la questione non è se oggi “per colpa” di internet circolino più bufale di trent’anni fa ma è se il cittadino ne sia più vittima rispetto a trent’anni fa. In altri termini: sì, circolano più balle rispetto a trent’anni fa ma è ovvio dato che è cresciuta in modo esponenziale la massa di informazioni circolanti e la massa di produttori di tali informazioni. Consapevoli del fatto che le bufale sono (e soprattutto saranno) sempre più pervasive rispetto ad allora, dobbiamo partire dalla consapevolezza che sono molto più facilmente controvertibili e questo perché la società che le riceve ha (e dovrà avere sempre di più) gli anticorpi per reagire, che invece erano quasi assenti tre decenni fa: oggi, alla pari di chi “spara bufale”, grazie a internet abbiamo più strumenti di allora per verificare e sovvertire le presunte verità attraverso un po’ di fact-checking, la verifica dei fatti che è certamente faticosa, laboriosa, è difficile ma è l’unico modo per non essere inghiottiti dalla post-verità rischiando di vivere in una società in cui le decisioni sono il frutto della diffusione virale di fake-news che “non abbiamo avuto voglia” di smentire. Ecco non mi spiacerebbe affatto se prima o poi a scuola “nell’ora di internet” si insegnasse un po’ di sano fact checking!

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