L’otto marzo in tutto il mondo.

di Amnesty International. Dall’Afghanistan all’Iran, passando per la Palestina, Israele e l’Etiopia fino ad arrivare in Italia. Sei luoghi molto diversi, accomunati dalla stessa lotta per l’uguaglianza che ci unisce tutte, non solo l’otto marzo. Storie di donne a cui è vietato andare a scuola, lavorare, vestirsi come vogliono.
Storie di crisi che si riversano sul corpo delle donne, di accuse non credute e di colpevolizzazione. Storie di chi non c’è più e di chi combatte ogni giorno perché non accada a nessun’altra.

LA GUERRA CONTRO LE DONNE IN AFGHANISTAN.

Da quando i talebani sono tornati al potere nell’agosto del 2021, i diritti e le libertà delle donne afgane sono progressivamente scomparsi in un clima di violenze e oppressione.

Una vera e propria guerra contro le donne fatta di divieti, torture e sparizioni.

Oggi, in Afghanistan, donne e ragazze non possono lavorare, studiare, frequentare gli spazi pubblici, viaggiare e vestirsi come vogliono. Sono state escluse dai ruoli pubblici e dalla maggior parte degli impieghi nel settore pubblico. Ragazze e bambine non possono studiare dopo la scuola primaria e l’accesso all’università è stato proibito.

Tutte queste limitazioni si accompagnano a imprigionamenti, sparizioni forzate, torture e maltrattamenti.

Quelle che hanno avuto il coraggio di protestare contro le politiche discriminatorie sono state represse brutalmente. Chi ha organizzato o partecipato alle proteste è stata perseguitata, offesa, molestata e minacciata. Striscioni e volantini sono stati distrutti o confiscati. Chi è finita in carcere, oltre al rischio di torture e maltrattamenti, non si è potuta rivolgere a un avvocato e non ha potuto ricevere visite regolari dalla propria famiglia.

La campagna talebana di persecuzione che si scaglia su donne e bambine in tutto il paese si dirama in una rete di restrizioni e soppressioni sistemiche di gravità tale da poter essere indagata come crimine contro l’umanità di persecuzione di genere.

“Le donne e le bambine afgane sono vittime di un crimine contro l’umanità di persecuzione di genere. C’è solo una cosa da fare: smantellare il sistema di oppressione e persecuzione di genere – Agnès Callamard”

Nonostante ciò, donne e ragazze continuano a guidare proteste pacifiche contro i talebani in varie città afgane, tra cui Kabul, Faizabad, Herat e Mazar-i-Sharif, e a battersi per riottenere libertà e diritti.

Tra loro, ci sono Neda Parwani, popolare Youtuber detenuta per tre mesi con il figlio di quattro anni,  l’attivista Parisa Azada, Zholia Parsi, una delle fondatrici del Movimento spontaneo delle donne afgane, e Manizha Seddiqi, sparita per settimane e attualmente ancora detenuta.

Mentre le donne afgane continuano a sfidare questa tempesta, siamo sempre al loro fianco per difendere il loro diritto a vivere in libertà.

Caro Sig. Abdul Haq Wasiq,

le scrivo per esprimere la mia grave preoccupazione per l’arresto arbitrario e la detenzione di Manizha Seddiqi, eminente difensora dei diritti umani in Afghanistan.

È stata detenuta arbitrariamente semplicemente per aver esercitato il suo diritto alla libertà di espressione e di riunione pacifica. Anch’essa membro del Movimento Spontaneo delle donne afgane, è scomparsa con la forza il 9 ottobre 2023 e ritrovata settimane dopo sotto la custodia dei talebani.

L’arresto di Manizha Seddiqi viola il diritto internazionale in materia di diritti umani, compreso il Patto internazionale sui diritti civili e politici, di cui l’Afghanistan è parte. È una chiara violazione dei diritti alla libertà di espressione e di riunione pacifica.

Vi invito pertanto a:

  • liberare immediatamente e incondizionatamente Manizha Seddiqi
  • in attesa del suo rilascio, assicurarvi che le sue condizioni di detenzione rispettino gli standard internazionali, che abbia accesso ad avvocati e cure mediche e possa ricevere visite familiari
  • smettere immediatamente di sottoporre le donne e le loro famiglie ad arresti e detenzioni arbitrari, sparizioni forzate e altre gravi violazioni dei diritti umani semplicemente per aver esercitato i loro diritti.

IL GRIDO “DONNA, VITA, LIBERTÀ” DELLE DONNE IRANIANE.

Sono passati due anni dalla rivolta del movimento “Donna, vita, libertà”, due anni in cui donne e ragazze iraniane non hanno mai smesso di scendere nelle strade e chiedere diritti e uguaglianza. Due anni in cui le autorità hanno intensificato la repressione e la violenza.

Decine di migliaia di donne si sono viste sequestrare le proprie automobili per aver sfidato l’obbligo d’indossare il velo; altre sono state processate e condannate al carcere, alle frustate, a pagare multe oppure costrette a seguire corsi sulla “moralità”.

Tra quelle che hanno preso parte alle manifestazioni pacifiche, molte hanno subito stupri o altre forme di violenza sessuale, usate dalle forze di sicurezza per torturarle, punirle e intimidirle. Le testimonianze raccolte rappresentano solo parte di un sistema usato per reprimere proteste e dissenso. Anche magistrati e giudici si sono resi complici, ignorando o insabbiando le denunce e utilizzando confessioni estorte con la tortura per condannarle a morte o al carcere.

A queste drammatiche storie, si accompagnano quelle di donne coraggiose che hanno perso la vita o sono state incarcerate solo per aver osato essere libere.

Armita Garawand è morta a 16 anni dopo essere stata gravemente ferita da un’addetta al controllo delle leggi sul velo all’interno di un vagone della metropolitana di Teheran.

Narges Mohammadi è una delle più importanti voci del dissenso dell’Iran. Il 6 ottobre 2023 è stata insignita del Premio Nobel per la pace. Non ha potuto ritirarlo perché si trova nella prigione di Evin, a Teheran, per scontare un totale di 12 anni e 11 mesi di carcere, 154 frustate e altre sanzioni in quattro processi.

Nasrin Sotoudeh è una celebre avvocata per i diritti umani e prigioniera di coscienza. Picchiata e arrestata il 29 ottobre mentre partecipava ai funerali di Armita Garawand, il 15 novembre è stata scarcerata dietro il pagamento di una cauzione.

Zeynab Jalalian è un’attivista curda iraniana che si batte per l’emancipazione delle donne e delle ragazze della sua minoranza oppressa. A causa delle sue attività sociali e politiche sta scontando l’ergastolo nella prigione di Yazd, nell’omonima provincia, a 1400 km dalla sua famiglia.

Roya Heshmati è un’attivista che lotta contro l’obbligo del velo e che ha ricevuto 74 frustate per aver pubblicato una foto sui social con i capelli scoperti.

Elaheh Mohammadi e Niloofar Hamedi sono due giornaliste che hanno seguito il caso di Mahsa Amini. Accusate di propaganda contro lo stato e cospirazione, sono state condannate. Pochi mesi fa, a meno di 24 ore dalla scarcerazione su cauzione, le autorità giudiziarie iraniane hanno aperto un’altra inchiesta perché si sono mostrate senza velo all’uscita del carcere.

LA GUERRA E IL CORPO DELLE DONNE.

ETIOPIA.

In Tigray, i soldati e le milizie alleate con il governo etiope hanno commesso stupri contro donne e ragazze e hanno inflitto a loro e ai loro cari danni fisici e psicologici gravissimi.

Lo stupro e altre forme di violenza sessuale sono stati usati come armi di guerra. Centinaia di donne e ragazze sono state sottoposte a trattamenti brutali allo scopo di degradarle e privarle della loro umanità. La gravità e la dimensione di questi reati sessuali sono spaventose, al punto da costituire crimini di guerra e forse anche crimini contro l’umanità.

Le strutture sanitarie del Tigray hanno registrato 1288 casi di violenza di genere tra febbraio e aprile del 2021. Il solo ospedale di Adigrat ha registrato 376 casi di stupro dall’inizio del conflitto al 9 giugno. Questi numeri non rappresentano la reale dimensione di questi crimini, dato che molte sopravvissute hanno raccontato di non essersi rivolte ad alcuna struttura sanitaria.

Le sopravvissute ancora non si sono riprese: molte lamentano continue perdite di sangue, dolori alla schiena e fistole, altre dopo lo stupro sono risultate positive all’Hiv/Aids. Non riescono a dormire e hanno sviluppato ansia e altre forme di stress emotivo.

STRISCIA DI GAZA E ISRAELE.

L’escalation di violenza in Israele e a Gaza è senza precedenti. Sono già decine di migliaia le vittime civili e la situazione umanitaria è drammatica. Nella crisi estrema, le donne stanno pagando un prezzo ancora più alto.

La Rappresentante speciale Onu sulla violenza sessuale nei conflitti ha dichiarato di aver trovato “informazioni chiare e convincenti” sugli stupri e sulle torture sessuali commessi contro le persone sequestrate il 7 ottobre nel sud di Israele.

Nel frattempo, il 26 gennaio, la Corte internazionale di giustizia ha constatato che i palestinesi a Gaza sono a rischio reale e imminente di genocidio. Un mese dopo l’ordine a Israele di adottare tutte le “misure immediate ed efficaci” per proteggere la popolazione palestinese, non è stato fatto neanche il minimo passo avanti per fornire sufficiente assistenza umanitaria e il funzionamento dei servizi di base.

In mezzo a questa catastrofe umanitaria, le donne di Gaza vivono una crisi nella crisi a causa della grave mancanza di assorbenti, biancheria intima pulita, salviette umide e altro forniture igieniche. Alcune sono state costrette a usare i bordi delle tende o pezzi di stoffa come assorbenti.

Ci sono decine di migliaia di donne incinte e almeno il 40% di loro è stato classificato ad alto rischio; 180 donne partoriscono ogni giorno senza un medico, un’ostetrica o un’infermiera che le assista durante il travaglio, senza antidolorifici, anestesia o materiale igienico.

SOLO SÌ È SÌ, ANCHE SE IN ITALIA ANCORA NON È SCONTATO.

Nel 2023 in Italia sono state uccise 120 donne. Nei primi mesi del 2024 sono già almeno 20 le vittime, mentre gli episodi di violenze sessuali e molestie si ripetono giorno dopo giorno.

Secondo l’ultima indagine di Save The Children e Ipsos “il 30% degli adolescenti sostiene che la gelosia è un segno di amore […] Il 17% delle ragazze e dei ragazzi tra i 14 e i 18 anni pensa possa succedere che in una relazione intima scappi uno schiaffo ogni tanto […] quasi uno/a su cinque (19%) di chi ha o ha avuto una relazione intima dichiara di essere stato spaventato dal/lla partner con atteggiamenti violenti, quali schiaffi, pugni, spinte, lancio di oggetti“.

A questa ricerca, si accompagna quella dell’Istat (2019) per cui il 39.3% della popolazione ritiene che una donna sia in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se non lo vuole. Secondo il 23.9% una donna può provocare la violenza sessuale con il suo modo di vestire e per il 15.1% si è corresponsabili se la violenza sessuale avviene da ubriache o sotto effetto di droghe.

Sono tutti dati spaventosi, frutto di una cultura dello stupro contro cui non si fa ancora abbastanza.

L’urgenza di intervenire sulla prevenzione con azioni di impatto e di lunga durata è evidente da queste statistiche, che mostrano chiaramente stereotipi e credenze che danno vita alle diseguaglianze di genere.

“Solo sì è sì” dovrebbe essere una frase scontata, ma in Italia purtroppo ancora non lo è. Per questo, è essenziale lavorare su una cultura del consenso che sfidi la cultura dello stupro in maniera efficace, educando all’affettività e alla gestione del rifiuto e promuovendo il rispetto reciproco. Bisogna adottare un approccio sistemico che comprenda la revisione delle politiche sul lavoro, l’istruzione e la salute riproduttiva e che smantelli gli stereotipi culturali che perpetuano la disuguaglianza di genere.

L’eradicazione della violenza di genere, manifestata in varie forme, da abusi fisici a stalking, può partire da un cambio di mentalità che coinvolga uomini e donne in una lotta comune. Ma questo non basta, serve anche mettere nero su bianco, una volta per tutte, che il sesso senza consenso è stupro.

Nel codice penale italiano, infatti, l’articolo 609-bis prevede che il reato di stupro sia necessariamente collegato a violenza, minaccia, inganno e abuso di autorità. Nessuna menzione, quindi, al consenso. Nessun riferimento a quanto stabilito dalla Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia nel 2013, per cui lo stupro è un “rapporto sessuale senza consenso“ e il consenso “deve essere dato volontariamente, quale libera manifestazione della volontà della persona, e deve essere valutato tenendo conto della situazione e del contesto“.

L’introduzione del principio del consenso nella nostra legislazione contribuirebbe a garantire il pieno accesso alla giustizia alle vittime di violenza sessuale.

FIRMA ORA L’APPELLO

Chiedi con noi che il principio del consenso sia riconosciuto nella legge contro lo stupro

 

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