L’ipoteca russa sul nucleare occidentale.

di Mario Seminerio. L’Amministrazione Biden si è accorta di avere una dipendenza molto problematica dalla Russia: quella dell’arricchimento dell’uranio utilizzato nelle centrali nucleari. Secondo dati governativi statunitensi, nel 2022 circa un quarto del combustibile usato negli impianti nucleari è passato attraverso lavorazione russa mediante contratti di fornitura di lungo termine. Mosca controlla almeno il 50% della capacità mondiale di arricchimento dell’uranio, e da sempre opera per danneggiare la catena di fornitura statunitense, scaricando sul mercato mondiale prodotti di uranio arricchito a prezzi molto competitivi.

LA POTENZA ROSATOM.

Non a caso, tra le sanzioni imposte a Mosca dopo l’invasione dell’Ucraina, non ve ne sono di relative alla vendita di combustibile nucleare e servizi di arricchimento del medesimo da parte del gigante russo Rosatom. Ad oggi, ci sono pochi fornitori occidentali di uranio arricchito, tra i quali i francesi di Oranco, il consorzio Urenco, controllato da britannici, tedeschi e olandesi, e i cinesi di China National Nuclear Corporation.

Ma Rosatom, con i suoi 330.000 dipendenti, ha una profonda impronta anche in Europa, soprattutto orientale, dove rifornisce vecchi reattori ad acqua pressurizzata (VVER) costruiti durante la Guerra Fredda e la cui vita produttiva volge al termine (molti sono già in regime di proroga). Si stima che la Russia fornisca il 30% del combustibile nucleare usato in Unione europea.

Enirched Uranium Market Shares
Mosca sta poi costruendo 33 nuove centrali in dieci paesi, tra cui Cina e India, con conseguenti contratti di fornitura della durata di decenni. Ciò che è peggio, al momento il gruppo Rosatom è l’unico al mondo a fornire la commercializzazione dell’uranio con il livello di arricchimento necessario per i cosiddetti piccoli reattori modulari (SMR), la cui tecnologia viene considerata in occidente molto promettente.

L’Occidente si è progressivamente disimpegnato dalla filiera nucleare dopo l’incidente di Fukushima del 2011. Negli Stati Uniti, l’ultimo impianto commerciale di conversione e arricchimento di uranio è stato chiuso nel 2013. Nel frattempo, alcune tra le maggiori realtà dell’industria nucleare civile occidentale, quali la francese Areva e le americane US Enrichment e Westinghouse Electric, sono finite in dissesto. Ciò ha permesso a Rosatom di ampliare la propria quota di mercato, offrendo anche generosi finanziamenti per la realizzazione di centrali in giro per il mondo. Dopo la fine della procedura fallimentare, nel 2018, Westinghouse ha firmato contratti per rifornire di combustibile nucleare i reattori ucraini, che tuttavia ancora ricorrono alle scorte di combustibile fornito da Rosatom.

Us Suppliers Enriched Uranium
LA STRATEGIA DI BIDEN.

Che fare, quindi, dopo questa epifania? L’Amministrazione Biden intende agire su due binari paralleli: lo sviluppo di capacità domestica occidentale, e la progressiva limitazione delle vendite russe. Al Congresso sono stati chiesti 2,16 miliardi di dollari per rendere il Dipartimento dell’Energia il compratore di lungo termine e ultima istanza del combustibile nucleare, e consentire la rinascita della filiera.

Nel frattempo, nei due rami del Congresso si fanno strada i disegni di legge per vietare l’importazione di uranio russo. Stanno anche venendo finanziati programmi di espansione dell’impianto di arricchimento Urenco in New Mexico ed è stato cofinanziato il progetto pilota per l’arricchimento di uranio necessario agli SMR. Si collabora con Canada, Regno Unito, Francia e Giappone per ricostituire l’intera catena di fornitura. Per il decollo della strategia le autorità statunitensi stimano che nei prossimi due-tre anni serviranno 5-10 contratti di costruzione di nuove centrali negli Stati Uniti.

La strada è lunga e accidentata, come si vede. La Russia ha una dotazione di risorse naturali e, in questo caso, di tecnologie che le permettono di esercitare la propria proiezione di potenza sul teatro globale. Un dato noto ma col quale occorre continuare a fare i conti, in un’ottica strategica. Per il resto, si conferma che l’attuale fase storica, caratterizzata dal ritorno dei blocchi, porterà a rilevanti costi per riconfigurare le catene di fornitura.

 

Fonte: https://phastidio.net

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