La vera satira non ha paura. Non deve averne.

di Grazia Nonis. Assisto sgomenta al silenzioso via libera della censura d’opinione e di stampa. Da una parte, i pochi coraggiosi che non risparmiano accuse verso i veri autori della maledetta strage di Charlie Hebdoe. Dall’altra, gli ipocriti che vestono ipocrite magliette “Je suis Charlie”, e che fanno satira solo verso persone che al massimo fanno partire una querela. Gli stessi che fino a ieri hanno criticato e accusato i vignettisti assassinati di aver esagerato, e per questo essersela cercata. I vigliacchi dell’informazione che fanno i forti con gli occidentali mentre si posizionano a novanta gradi davanti a chi ha cancellato il termine ironia dal proprio vocabolario. Insomma, i soliti falsi e ruffiani. Quelli che vanno in tv urlando e sbraitando contro i nostri politici, proponendo un disegnino da voto zero per comicità ma non hanno il coraggio di prendere in giro chi potrebbe impallinarli. Che lo dicano apertamente di avere paura, senza correre a disegnare un Brunetta nano, un Berlusconi con la pelle di daino sulla pelata o un Renzi alias Mr. Bean. Troppo facile, troppo da italiano calabraghe.
La vera satira prende in giro, gioca con le parole, pungola e insinua il dubbio strappando un sorriso alle persone intelligenti. La vera satira non ha paura. Non deve. A volte può far arrabbiare, fa parte del gioco. Ma chi condanna la satira condanna la libertà d’opinione, le idee. Violenta le menti. La paura s’insinua nel corpo tagliando la mano di chi scrive e mozza la lingua di chi vuol parlare. Ci si autocensura per non essere presi di mira, confondendo la nostra capacità di distinguere ciò che è lecito dire da ciò che non lo è. Già da troppo tempo ci costringono ad autocensurarci. Abbiamo dovuto evitare le opinioni e le critiche verso gli immigrati, rom e donne velate. Ci vengono imposti, addirittura, sinonimi ad hoc per non urtare l’altrui sensibilità, cancellando dalla nostra lingua vocaboli di utilizzo quotidiano. Ci hanno reinventato la lingua italiana. A breve, persino la parola “maiale” dovrà essere abolita per non evocare traumi nelle sensibili menti che giudicano il porco immondo e inadatto alla loro e ormai nostra nuova (imposta) civiltà. Criticare donne coperte da trapunte è out, è razzismo. Dare del rom a dei rom è razzismo perché bisogna distinguere tra rom e rumeni, chi è zingaro e chi no. Meglio non pronunciare quella parolina perché potrebbe aumentare il fastidio verso una particolare etnia…. Insomma, pur evitando di dire parolacce e rivolgere insulti, siamo costretti a fare lo slalom tra parole permesse ed aggettivi vietati. L’obiettività è tollerata solo se camuffata e scolorita a seconda del destinatario finale. Bisogna fare attenzione a come camminiamo, come guardiamo, come ci esprimiamo. Giù la testa o piovono querele, denunce, gogne mediatiche. Al contrario, dobbiamo digerire l’altrui insulto e buttare giù, ingoiare, capire, tollerare. Ma non è la mia libertà, non è la nostra. Dobbiamo poter esprimere le opinioni dove, come e con chi vogliamo. Essere in grado di correggere il tiro se sbagliamo e dialogare con chi ci critica. Ben venga la zuffa verbale, perché è solo col confronto che possiamo arrivare ad una conoscenza più ampia, e perché no, magari cambiare parere e fare un passo indietro. Invece, siamo alunni di un’invisibile scuola di educazione linguistica diretta da “professori” e giudici della parola, spesso immeritevoli del nostro rispetto. Dittatori nella scelta del vocabolo appropriato. Dittatori che tracciano una linea sottile a separare la libertà farlocca da quella autentica. Ma il filo che le separa è d’acciaio, di quelli che tagliano la gola appena gli corri incontro per oltrepassarlo. Siamo obbligati a vivere nella finta libertà e costretti ad un falso silenzio per evitare l’inevitabile guerra che, in un tempo non troppo lontano, ci renderà schiavi di coloro verso i quali ci siamo inginocchiati per non urtare la loro troppo sensibile sensibilità. Per paura.

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