La Studebaker Champion verde erba.

di Vittorio Cajo’. Forse avrò avuto 11 anni, abitavo ad Alexandria, era un periodo di relativa calma sociale, la Guerra Mondiale (la seconda, per intenderci, perché la prima è denominata la Grande Guerra) era terminata da pochi anni e la sensazione era che l’umanità era tesa a voler recuperare la voglia di vivere in pace; anche se per la verità in Egitto il conflitto non fu sentito un granché, dal momento che il vero proscenio fu l’Europa.

La nostra posizione di europei, e soprattutto di italiani (mio padre Mario era soggetto italiano), era benaccetta. Solo più tardi, con i disordini politici, si sarebbe manifestata l’intolleranza verso lo straniero, soprattutto verso gli ebrei.

Da dove abitavo, sul lungo mare, la mia scuola era distante solo poche fermate di autobus, in un quartiere giudicato tranquillo. Perciò mi ci recavo da solo: attraversavo sotto gli occhi vigili di mia madre, che mi guardava dal balcone del quinto piano, un cortile antistante; quindi prendevo una piccola porta in fondo ad esso che consentiva di bypassare, a mo’ di piccolo canale di Suez, un enorme blocco di palazzi facendomi trovare praticamente davanti alla fermata dell’autobus. Questi erano dei Mercedes Benz modernissimi bicolore azzurro-bianco, e i motori che montavano, dei turbo-compressi di nuova tecnologia, sibilavano in rilascio con un suono molto emozionante che assomigliava a quello di una turbina in decelerazione. Il suono era nitido e si percepiva da lontano, per cui potevo stimare con buona approssimazione l’arrivo del pullman. Questo mi consentiva di allontanarmi un po’ dalla fermata per ispezionare dei dettagli che a molti sarebbero parsi del tutto insignificanti.

Da diverse mattine la mia attenzione veniva catturata da un’automobile americana di color verde erba con un muso d’aereo, parcheggiata sul marciapiede di fronte davanti ad un grande negozio di alimentari “Da Louros”. Mia madre vi si recava spesso a fare spesa anche se era un po’ caro, perché la merce era di ottima qualità ma soprattutto perché vi si trovavano i prodotti italiani: della pasta, di cui non ricordo il nome e del vino Chianti di marca Fassati, che esiste ancora oggi!

A quell’ora le serrande erano ancora abbassate e l’auto verde di lì a poco sarebbe schizzata via. Infatti, ebbi l’occasione più volte osservandola dal pullman che mi portava a scuola di scorgere una figura d’uomo dall’aspetto agile ma possente che velocemente entrava nell’auto, per ripartire dopo pochi secondi con grande accelerazione.

Sono sempre stato attratto in maniera totale dalle automobili (credo che il primo verbo che ho proferito in vita mia sia stato auto anziché mamma): questa passione, perché di questo si tratta, mi ha spinto a diventarne uno specialista da semplice amatore; ho lavorato in diverse case automobilistiche anche all’estero, ho scritto dei manuali tecnici sulla loro tecnologia costruttiva e persino un libro di volgarizzazione tecnica, poi tradotto in alcune lingue.

Qui tengo a fare un inciso: la mia seconda passione è stata ed è l’elettrotecnica, poi ampliata all’elettronica applicata, inevitabilmente. Questo, per dire quanto la mia visione personale dovrebbe essere pro auto elettrica. Senza voler toccare i temi, ampi e spinosi, della produzione e dello smaltimento degli speciali accumulatori elettrici destinati all’autotrazione, sono passato da uno scetticismo, ingiustificato, all’entusiasmo per questa nuova visione del mondo della mobilità individuale dopo aver compiuto un viaggio su una Tesla! Lì ho capito che l’auto elettrica non è un mero mezzo di locomozione, ma un elemento facente parte di un sistema di mobilità: nella visione della futura mobilità individuale e collettiva improntata all’elettrico tutti i mezzi saranno collegati tra di loro, scambiandosi in tempo reale delle informazioni essenziali su tutti i parametri che possono condizionare la sicurezza e la comodità del viaggio.

Eppure, devo dire che malgrado il basso rendimento finale dell’automobile a propulsione endotermica (parliamo di un 25 per cento, vale a dire che su 100€ di benzina che si mettono nel serbatoio 75 si disperdono, principalmente in calore) e il fatto che ancora oggi il funzionamento del motore a pistoni abbia del miracoloso, non vi è nulla di più umano sotto l’aspetto emozionale di questa tanto deprecata automobile come la conosciamo e l’amiamo. Chi non si emoziona alle lacrime di fronte ad una Lancia Aurelia B24? Oppure davanti ad un’Alfa Romeo GT Am?

È con questo spirito aperto al meraviglioso che, piccolino, mi accostai a questo simbolo vivente su quattro ruote della leggenda immortale che si fregia con orgoglio dell’appellativo “American way of life”. (Non lo sapevo ancora, ma stava nascendo in me quello che oggi è saldamente il mio universo parallelo). L’auto era una Studebaker, il modello Champion, costruito dal 1950 al 1959 (paradosso dei paradossi: la Studebaker iniziò la propria attività in campo automobilistico con la produzione di un’auto a propulsione elettrica).

Un dettaglio mi colpì immediatamente: l’auto aveva dei bordini larghi diversi centimetri saldati tutt’attorno ai passaruota e non aveva i paraurti. Le ruote calzavano degli pneumatici visibilmente enormi, larghissimi, che occupavano tutto lo spazio aggiunto dai bordini saldati alla carrozzeria. Mi accostai per guardare all’interno, soprattutto la strumentazione (un’abitudine che non ho perso e che per poco non mancò di farmi considerare un topo d’auto dalla polizia di New York). L’auto aveva indiscutibilmente l’aspetto di un aereo ed esercitava su di me un fascino maestoso e possente, elegante nella sua superiorità consapevole.

Questo appuntamento mattutino diventò una specie di rito per me. Mi fermavo, le giravo attorno, a volte la accarezzavo persino se non c’era nessuno per strada. Spesso il vano motore risultava ancora caldo, ed emanava un odore inebriante di meccanica, di ferro e olio.

Una di quelle mattine ebbi la sorpresa di avvistarne il proprietario: alto e atletico, indossava una divisa aeronautica che aggiungeva fascino a fascino, forse poteva avere poco più di trent’anni. Era esattamente come avrei immaginato che fosse il possessore di quella specie di aereo su quattro ruote.

Così presi l’abitudine di aggiustare i miei orari in modo da riuscire a vederlo mentre partiva di gran treno, incurante dello scalino costituito dal marciapiede.

Una mattina, mentre ero concentrato ad imprimere nella mia mente ogni dettaglio di quella che oggi definirei una scultura moderna, me lo trovai vicino, armato di un bel sorriso gioviale ed invitante! Si fermò ad illustrarmi dei dettagli dell’auto: era stata elaborata e la sua potenza era quasi raddoppiata! Venni a sapere il suo nome, Mabrùk, Sottotenente Mabrùk pilota dell’aeronautica militare egiziana. La mia ammirazione era al culmine e nel mio immaginario egli impersonava il cavaliere senza paura accanto al suo destriere! Diventammo quasi amici, al punto che una mattina mi accompagnò con il suo bolide direttamente a scuola!

Passò un anno, forse due, forse tre; intanto cambiai scuola, iniziavo ad uscire il pomeriggio del sabato per andare al cinema con degli amici coetanei, sperando anche di incontrare qualche ragazza carina che avevo adocchiato all’uscita del liceo. A quei tempi la vita in Egitto, soprattutto per noi europei, era marcatamente improntata a quel famoso way of life americano. E tutto attorno a noi ce lo ricordava: le automobili erano quasi tutte americane, Chevrolet, Cadillac, Buick, Desoto, Packard, autentici gioielli Fifties di cui ancora oggi vado letteralmente pazzo (solo mio padre, da italiano irriducibile, aveva un’auto Fiat); le gelaterie avevano nomi americani, tipo Gladys; accanto ai ristoranti tradizionali, quasi tutti in mano a greci, iniziavano ad apparire dei Fast Food dai nomi americaneggianti, come Hardee’s; i cinema portavano tutti nomi americani: Metro, Rialto, Strand. Gli stessi nostri modi, il nostro linguaggio, erano di stile Yankee, ci salutavamo dicendoci “Hi, bye, see you soon!”. I film erano tutti in lingua originale e accanto a poche pellicole francesi e italiane, la parte del leone la facevano i film americani, con i loro kolossal, girati per lo schermo panoramico. Tutti i film erano sottotitolati in due o tre lingue a seconda dell’origine, tra francese, inglese e arabo, per noi era una cosa normale.

Con il benessere e soprattutto con l’avvento di una nuova generazione di giovani provenienti da famiglie agiate economicamente, soprattutto europee, si diffuse massicciamente l’impiego dell’automobile: bolidi americani animati da potenti V8 da centinaia di cavalli. E fiorirono di conseguenza gli incidenti stradali, soprattutto di notte, alcuni particolarmente cruenti.

Questo fatto degli incidenti stradali diventò quasi un bollettino di guerra: molte delle giovani vittime erano note, soprattutto per via della posizione economica e sociale della famiglia. La decimazione diventò un flagello che le autorità non riuscivano a domare.

Queste morti premature diventarono anche motivo di accese discussioni tra i giovani, stimolati forse dall’attrazione di una vita vissuta apparentemente all’insegna del coraggio e del gusto di rischiare. Così, invece di costituire un freno alle imprudenze, questi drammi stimolarono il fenomeno perverso dell’emulazione. La moria di giovani vite pareva inarrestabile.

Furono affissi cartelloni, manifesti, inviti alla prudenza, spazi pubblicitari specifici nei cinema: invano.

Alla fine le autorità cittadine decisero che un buon deterrente poteva essere la visione diretta di ciò che restava di questi drammi, almeno a livello materiale, in modo da impressionare in maniera concreta le coscienze dei potenziali morituri.

Qui va detto che il centro nevralgico di divertimento della città, quello maggiormente frequentato dal pomeriggio del venerdì a quello della domenica (essendo allora l’Egitto un paese cosmopolita i giorni di festa comandata erano tre: il venerdì per i musulmani, il sabato per gli ebrei e la domenica per i cristiani) era formato da una vasta piazza a sviluppo quasi quadrato, a cui si affacciavano molte delle sale cinematografiche più prestigiose, tutte dotate di cinemascope. Fu quindi presa la decisione da parte del governatorato locale di edificare nel bel mezzo della piazza una specie di soppalco recintato, illuminato da potenti riflettori, su cui esporre i relitti più impressionanti delle auto incidentate.

Fu un pugno nello stomaco, soprattutto per noi giovani (chissà se il mio interesse per le prove di crash nasce proprio da questo?) perché oltre alla visione dello stato reale di un posto-guida ridotto a scatoletta, che lascia bene intuire che cosa può essere rimasto da chi sedeva al volante, allo spettacolo di poderosi paraurti d’acciaio cromato piegati come carta velina (le strutture differenziate che hanno salvato tante vite assorbendo l’energia d’urto erano ancora di là da venire; si può quindi ben immaginare le conseguenze della piena violenza dell’impatto sugli occupanti dell’auto), all’immagine degradata dallo sfacelo subìto di quella che era stata una bellissima auto di lusso, lo choc maggiore fu il riconoscere l’appartenenza dell’auto esposta. La città non era molto grande allora, malgrado i fasti storici e mitologici di quella che da sempre è stata denominata “la cité de tous les savoirs” (non dimentichiamo che il faro di Alexandria, i cui resti sono stati ritrovati appena pochi decenni fa’ da un’équipe archeologica francese nel profondo del porto antistante alla città, era considerato una delle sette meraviglie del mondo; e come non menzionare la Grande Bibliothèque ivi realizzata da Carlo Magno, quattro volte distrutta?) e le famiglie che potevano permettersi di concedere al proprio figlio una vettura di gran lusso, non erano certo moltissime. La loro notorietà era dovuta anche dal fatto che all’uscita delle scuole (dal Lycée Français, come dall’Institut San Marc, oppure dall’École Juive) i “rejetons des familles riches” venivano accompagnati e prelevati da tanto di auto di prestigio americana guidata da autista in livrea.

La folla si radunava attorno al palchetto, in un silenzio pesante, a volte rotto da un grido represso di disperata sorpresa: “Ma questa è l’auto di Paulette Herzenstein!”, “Oddio, è la macchina di Georges Spaulding!”, “È la Desoto di Jean Clementi!”…

Così, i pomeriggi e le serate che dovevano essere dedicate allo svago e alla spensieratezza finirono per trasformarsi in un lugubre e ansioso pellegrinaggio silente. La città ne risentì fortemente, sembrava di avvertire l’atmosfera immobile della città di Orano descritta da Albert Camus ne “La peste”. La piazza dei cinema diventò deserta, presenziata solo da quei terribili trofei illuminati a giorno.

Finché un bel giorno fu annunciato che non sarebbero più stati esposti i cadaveri metallici delle automobili sinistrate, sudario spietato di giovani vite spezzate.

Ricordo quell’ultimo sabato: la gente in piazza si precipitò ad osservare quella che doveva essere l’ultimo macabro spettacolo, forse per esorcizzare definitivamente quella che pareva essere una maledizione infinita. Mi precipitai anch’io e fu allora che la vidi: sul palchetto, ormai polveroso, giaceva quel che restava della Studebaker Champion verde.

“Si è fatta notte, e i barbari non sono più venuti. Taluni sono giunti dai confini, han detto che di barbari non ce ne sono più. E adesso senza i barbari, cosa sarà di noi? Era una soluzione quella gente”. Konstantinos Kavafis (Aspettando i barbari)

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2 Responses

  1. Sandro F. ha detto:

    La mia prima auto – rigorosamente usata – l’ho avuta a 30 anni, con il mio primo stipendio. Adesso neppure prendono la patente e già sono “motorizzati”!

  2. Franco'58 ha detto:

    …bei tempi!!!

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