La mia Alitalia.

di Luca Anedda. Avevo 12 anni quando i miei genitori mi proposero una vacanza/studio in Francia per migliorare le mie scarsissime conoscenze della lingua. Devo dire che la cosa non mi entusiasmava. Lasciare anche solo per quindici giorni lo splendido mare della Sardegna, i miei compagni di giochi, la possibilità remota, ma pur sempre possibile, di scambiare qualche calcio al pallone con Gigi Riva (andavamo allo stesso stabilimento: “le Saline”), faceva sì che l’idea di andare a Parigi, da solo, non fosse una ipotesi molto rosea. Ma alla fine accettai di buon grado e lo feci soprattutto perché così avrei potuto finalmente volare. Era la prima volta. Volo ATI, Roma-Cagliari, e poi Alitalia fino a Parigi. Fu una sensazione straordinaria. L’atmosfera gioiosa dell’aeroporto, la cabina di pilotaggio appena sbirciata salendo, l’equipaggio di cabina che mi coccolava, furono tutte cose che colpirono la mia fantasia di bambino. Penso che fu in quel momento che decisi che, da grande, avrei voluto fare il pilota. E così fu.

Durante i miei diciannove anni di Aeronautica Militare volai spesso con Alitalia. Sia per motivi di servizio sia per vacanza. Una delle ultime volte fu quando rientrai in Italia dagli Stati Uniti; siamo nei primi anni Novanta. Un maestoso Boeing 747 accolse me e la mia famiglia, in business class, con un impeccabile servizio. Con due bimbi piccoli, dovevamo forse rappresentare il cliente più problematico che ci si può aspettare a bordo. Eppure, fummo coccolati in tutto e per tutto. Le poltrone erano l’ultimo grido in quanto a comodità, ed il cibo era semplicemente sopraffino. La scelta dei vini era degna di un ristorante stellato. Tutto era perfetto. Erano gli anni in cui le low cost non erano ancora nate. Ogni Paese era orgoglioso di avere una Compagnia di Bandiera che portasse i colori Nazionali in giro per il mondo. Nelle piazze più importanti delle Capitali sorgevano i palazzi delle più importanti Compagnie Aeree: TWA, Pan Am, Boac, e così via. Alitalia era a pieno titolo fra queste: tra le più grandi e rinomate. Ed in fondo tutti i Governi erano disposti a fine anno a pagare un certo prezzo pur di mantenere aperto il proprio ufficio di rappresentanza nel mondo.

Boeing 747 Baci

Tralascio le motivazioni che mi spinsero a lasciare l’Aeronautica Militare: è stato quello un periodo della mia vita professionale e non solo, semplicemente straordinario. Irripetibile. Volare su un aeroplano da caccia come l’F104, basterebbe da solo ad attribuire il massimo dei voti ad una simile esperienza di vita. Ma in realtà quegli anni sono stati molto di più. Ma questa è un’altra storia.

F104

Entrai in Alitalia nel giugno del 1996. Varcando la soglia del palazzo Alitalia a Fiumicino, ricordo che si percepiva netta la sensazione di essere entrati in una grande Compagnia. E così era. Con la sua flotta atterrava in tutti e cinque i continenti. Il personale tecnico di volo era tra i più rispettati al mondo. La flotta era modernissima. L’addestramento era tra i più rigorosi e selettivi. La manutenzione era praticamente tutta svolta “in casa”, con una capacità ed una professionalità impareggiabili. Eravamo noi a fornire i servizi alle altre Compagnie che erano ben felici di usufruirne pur pagando un discreto prezzo. Insomma, era un fiore all’occhiello del “made in Italy”, con una storia alle spalle ricca di successi che hanno portato il marchio Alitalia ad essere conosciuto ed apprezzato in tutto il mondo. Tutti gli Italiani che vivevano all’estero volevano viaggiare solo con la compagnia di bandiera italiana.

Ricordo con estrema gioia la mia nomina a Comandante. Non era né semplice né scontato raggiungere quel traguardo in Alitalia. Il corso Comando era tra i più duri e selettivi al mondo. Durava, all’epoca, circa sei mesi. Mesi nei quali il candidato veniva scrutinato continuamente; sia in volo che al simulatore. Le capacità tecniche e le conoscenze procedurali erano scandagliate da un numeroso gruppo di istruttori ed esaminatori. Molti erano i casi in cui il candidato non riusciva a superare la prova o dovesse ripeterla. Ed una volta nominato Comandante, vi erano sei mesi di stretta osservazione, con vari check, in volo ed al simulatore. Insomma, prima di affidarti un aeromobile l’Alitalia voleva essere certa di poter offrire alla sua clientela il meglio.

Non era così per tutte le Compagnie.

Da passeggero mi sono sempre affidato ad Alitalia con la certezza che il personale avesse ricevuto il miglior addestramento possibile, che la manutenzione fosse di prima qualità, affidata a mani e cervelli capaci, con anni di esperienza alle spalle. E devo dire che è una bella e piacevole sensazione.

Inutile dire che la realtà economica non può essere disgiunta da tutto questo discorso. Ed i numeri sono impietosi, soprattutto in quest’ultimo decennio.

Il discorso potrebbe essere molto lungo, ma penso che lo si possa sintetizzare in due periodi significativi della vita di Alitalia, per evidenziare come le maggiori responsabilità del fallimento di Alitalia siano politiche e manageriali.

Il piano Cempella, sul finire degli anni Novanta, fu probabilmente l’ultima vera occasione di rilancio di Alitalia. Era un piano fatto da un manager che ci capiva di trasporto aereo, e che soprattutto amava Alitalia. Era un piano incredibilmente semplice nella sua complessità: unire due realtà del trasporto aereo, Alitalia e KLM, per farne la più grossa Compagnia al mondo. Una complementare dell’altra. La prima molto forte nella rete Europea, l’altra straordinariamente capillare nelle connessioni intercontinentali. Piano superbo, che ci avrebbe visto ancora oggi leader mondiali. Fallì per questioni politiche di basso livello: storie di campanilismo tra Roma e Milano.

Domenico Cempella

Il secondo periodo che vale la pena citare è quello segnato dall’avvento dei Capitani coraggiosi, dopo le elezioni vinte da Berlusconi, che sulla spazzatura di Napoli e su Alitalia basò la sua vittoriosa campagna elettorale. Questi poco capitani e non tanto coraggiosi, si ritrovarono tra le mani una Compagnia senza debiti, con una flotta nuova di zecca, personale ridotto, e con nuovi contratti meno onerosi. Erano nelle migliori condizioni possibili per rilanciare Alitalia. Ma fu un fallimento. Fu dichiarato all’epoca che la tratta Roma-Milano era la gallina dalle uova d’oro e che da sola poteva consentire di ottenere ricavi importanti e significativi. Mai affermazione fu più miope e sbagliata. L’alta velocità che si era ormai imposta, soprattutto su quella direttrice, rendeva già palese come sarebbe stato più utile orientarsi sul mercato del lungo raggio, aumentandone la flotta e le destinazioni. Mercato che era ancora al riparo dall’aggressione delle “low cost”, come Ryanair. Dopo tre anni di questa miope gestione, i conti si rivelarono apocalittici, e come sempre l’incolpevole personale Alitalia tornava a salire sul banco degli imputati. Direi con un sottile piacere di tutti, ma soprattutto di certa stampa poco informata che con faciloneria sprecava fiumi di inchiostro su quanti fossero i privilegi di cui godeva il personale, e di come questi fossero la causa stessa del fallimento. Uno specchietto per le allodole che però ha in parte funzionato, ed ha distolto l’attenzione sulle vere cause dei continui insuccessi finanziari.

Da oggi siamo senza Alitalia. Auguri ad ITA. Ma rimane un vuoto dentro, testimoniato ultimamente anche da tanti ex-passeggeri, illustri e meno illustri, che hanno volato Alitalia nel mondo, affidando alle sue affettuose braccia se stessi ed i propri cari. Non dimentico i tanti “grazie Comandante” dopo un atterraggio difficile condotto in particolari condizioni atmosferiche, oppure i complimenti all’equipaggio per il meraviglioso servizio. Ed ancora la capacità di risolvere brillantemente un problema tecnico da parte dei nostri manutentori, che ha permesso, in piena sicurezza, di portare a destinazione i passeggeri del volo.

Da oggi si apre una nuova pagina. Una pagina che vede l’Italia senza una sua Compagnia di Bandiera. Il suo fallimento è anche un fallimento per l’Italia.

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