La Festa di Natale a scuola prima del “proibizionismo”.

di Grazia Nonis. Mio nonno era ateo, ma suonava il clarinetto nella banda musicale della parrocchia. Su volontà di mia nonna, fece battezzare i figli ed entrò in chiesa anche quando si sposarono. Non obiettò mai contro il crocifisso appeso in cucina, l’albero di Natale davanti al camino o il presepe in salotto. Tradizioni di famiglia che, tramandate negli anni, andavano accettate. Non si poneva neppure il problema, così era e così doveva essere.
Sugli alberi di Natale s’appendevano mandarini e angioletti fatti a scuola col Das, mentre nel presepe c’erano solo il bambinello, la Madonna, Giuseppe, il bue, l’asinello e un po’ di muschio qua e là. Noi bambini si giocava con le statuine dei Re Magi, che scomparivano e per “miracolo” riapparivano a seconda degli anni. Non ricordo una Festa di Natale a scuola senza il presepe e i canti di noi bambini: Tu scendi dalle stelle o Re del cielo, e vieni in una grotta al freddo e al gelo … O Dio beato…! E come scordare quelle dei miei figli, i presepi e i loro canti. E come vorrei assistere, prima o poi, a quelle dei miei nipoti, ai loro presepi ed ai loro canti. Non so se farò in tempo, perché alcuni buonisti del “religiosamente corretto” stanno schiacciando sotto i piedi tutto ciò che ci è stato tramandato.E prima o poi, ci costringeranno a radunare i nostri figli nelle cantine del condominio, con una sentinella davanti il portone, per passar loro il testimone, per non fargli dimenticare come si svolgeva la Festa di Natale a scuola prima del “proibizionismo”. Nel frattempo, ci stiamo anche battendo contro lo scippo del nostro crocifisso dalle scuole, dagli ospedali e dagli uffici pubblici, in difesa delle nostre usanze, del nostro passato. Ricordo che il crocifisso era appeso sul muro della classe sopra la testa dell’insegnante: Gesù sulla croce, corona di spine in testa, mezzo nudo, chiodi e sangue a mani e piedi. Vegliava su di noi, tranquillizzava gli animi, donava pace. Alzavamo gli occhi e lui era lì, con noi. Non eri obbligato a essere credente o a porti domande sul perché. Egli doveva stare proprio lì, su chi l’aveva appeso, su chi aveva deciso che quello era il Suo posto. Era una tradizione, e come tale doveva essere rispettata. Deve essere rispettata. E poco mi frega se urta, importuna, infastidisce o schifa la “sensibilità” del nuovo arrivato. Nel paese d’origine del novello italiano, che mai potrà definirsi tale se non disposto ad accettare i nostri usi e costumi, è vietato importare, imporre, suggerire o consigliare di abolire o sostituire simboli diversi da quelli tradizionali o religiosi del luogo. In quei paesi, cari buonisti anti-italiani, è vietato mostrare addirittura la caviglia, mentre in altri è fortemente “consigliato” il velo. Esigono il rispetto delle regole da parte di tutti, stranieri inclusi. Forse è il caso che noi si faccia altrettanto. Sarà banale, ma il proverbio: “paese che vai, usanza che trovi” dovrebbe essere più che mai attuale, imposto per legge o addirittura inserito nella Costituzione. Pare, invece, che della nostra sensibilità non freghi un tubo a nessuno. Anzi, chi si lamenta, contesta e polemizza affinché il presepe ed il crocifisso vengano tutelati (mi sembra di riferirmi ad animali in via d’estinzione) viene tacciato di razzismo e d’insensibilità verso le religioni altrui. Insomma, ci danno delle bestie. Mi sfugge una risata amara, mentre penso che la maggior parte di quelli che ci remano contro, e che vorrebbero cambiare le regole e la nostra italianità, sono proprio i nostri concittadini, gli insegnanti, i dirigenti d’istituto, gli intellettuali chic e molto scioc del nostro stivale e dei nostri stivali. E tra questi, proprio quelli che fino a ieri s’emozionavano durante la festa di Natale a scuola, quelli che s’asciugavano la lacrimuccia assistendo rapiti alla recita della propria figlia nei panni della Madonna, o del nipote che, con le ali posticce dietro la schiena, nella parte dell’angelo, cantava a squarciagola “Tu scendi dalle stelle …”.

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