I giovani italiani under 35 sono i meno impiegati d’Europa in ambito ICT. Nessuna domanda o mancanza di offerta?

di Antonella Fancello. Per lavoro e per passione mi occupo di tecnologie da quasi 20 anni e una delle frasi che mi è capitato più spesso sentir pronunciare da chi rema contro l’innovazione tecnologica è “ma quanti posti di lavoro si perderanno per colpa dei computer?” e via col delirio delle macchine che un giorno sostituiranno completamente il lavoro dell’uomo … la fine del mondo insomma per colpa di quei “marchingegni infernali”. È pur vero che un numero oramai indefinito di attività che prima
venivano svolte solamente dall’uomo sono oggi completamente semplificate dai calcolatori ma, e qui risfodero l’adagio che viene ripetuto ai ragazzi in aula nei laboratori di coding, il computer è una macchina stupida e questo implica che non esegua nulla se non quello per cui è stata programmata (indovinate da chi?), dall’uomo: il calcolatore non pensa, ci dice l’esperto di codice, non ha capacità intuitiva e soprattutto non crea, può soltanto essere programmato e in quanto tale sarà sempre succube dei dictat umani. Perché questo “mappazzone” sul rapporto uomo/macchina? Perché il vero problema non è il numero dei posti di lavoro venuti a mancare per via delle macchine ma degli innumerevoli, e si parla di migliaia di posti di lavoro, che resteranno scoperti perché non abbiamo competenze digitali adeguate e tali da saper programmare e governare, quelle macchine, in buona sostanza la disoccupazione c’è e ci sarà sì, ma non per colpa dei computer ma perchè non ne facciamo uso adeguatamenteL’allarme dell’Unione Europea è oramai datato: era il lontano 2012 quando ci disse che i giovani cittadini del vecchio continente, sebbene armeggiassero tanto con smartphone e videogiochi, non avevano le fondamentali competenze digitali che avrebbero potuto favorirli nel trovare lavoro in un’economia sempre più digitalizzata. La Commissione europea stimò che entro il 2020 ci sarebbe stato un aumento di 16 milioni di posti per personale altamente qualificato e una riduzione di 12 milioni per il personale poco qualificato (tradotto: inoccupati per mancanza di competenze digitali adeguate). Sono passati quasi 5 anni, ere geologiche, ai tempi dell’industry 4.0 e dei BIG e Open Data eppure, e adesso non parlo più di Europa ma del nostro paese, i giovani italiani annaspano in un mercato del lavoro in cui hanno poche carte da giocare perché il lavoro c’è ma non sono in grado di “accaparrarselo”. Partiamo, come sempre, dai dati grezzi: in Italia solamente il 2,5 per cento dei lavoratori è impegnato in ambito ICT: l’Information and Comunication Tecnology è il settore guida dell’innovazione e della crescita di un paese che se è ampio, e occupa una rilevante porzione di lavoratori, significa che il futuro economico di quel paese è buono. Il dato peggiore, è quello che riguarda quanti, all’interno di quel 2,5 per cento di impiegati in ICT, sono laureati: solamente il 33 per cento, con ben 15 punti di distacco, per esempio, dalla Germania che pur non avendo un numero elevato di laureati offre delle solide competenze tecniche già a scuola. La distanza tra noi e la media europea è immensa visto che in Europa è il 60% di chi lavora in ambito ICT ad essere laureato (saliamo, pensate, al 70% in Spagna e forse è questo il motivo per cui i nostri vicini iberici, nonostante simili a noi in termini di crisi, crescano del 3,5% contro il nostro esile 0.8%). Ma il dato, a mio parere, ancora più allarmante è quello legato a quanti, al di sotto dei 35 anni sono impiegati in ambito ICT: studiando il fenomeno italiano del divario digitale ci siamo sempre detti che le generazioni ad essere maggiormente colpite erano quelle degli over 50, da cui l’ostacolo nel processo di ammodernamento all’interno delle pubbliche amministrazioni, che ho sotto gli occhi ogni giorno, legato dalla impossibilità di un turn overll grafico in copertina ci dice che il nostro è l’ultimo paese in Europa che occupa giovani in ambito ICT al di sotto dei 35 anni e il dato significa due cose: o manca l’offerta di lavoro per loro o non hanno competenze tali da ricoprire determinate posizioni sia nel pubblico che nel privato. La mia idea, e non solo mia, è che concorrano entrambi i fattori ma più di tutti il secondo che a catena genera il primo (la mancanza di competenze genera mancanza di consapvolezza da parte di chi prende le decisioni e la conseguente scelta di mettere in campo logiche poco innovative per cui non è richiesto personale particolarmente competente, è un gatto che si morde la coda). Possiamo ancora rimandare il problema senza affrontarlo prioritariamente come un’autentica (l’ennesima, direte voi) emergenza nazionale tutta italiana? La Coalizione Nazionale per le Competenze Digitali messa insieme da Agid, di cui fanno parte le due realtà all’interno delle quali io opero professionalmente, ha avviato una parte degli interventi necessari per fronteggiare l’emergenza competenze nel nostro paese, ma non basta poichè il problema è davvero molto più ampio e deve coinvolgere un’azione collettiva che ovviamente parta dalle istituzioni che con il nuovo CAD, hanno responsabilità specifiche e dirette su questo tema. L’ultimo rapporto dell’I-Com ce lo dice in modo evidente: “è assolutamente prioritario intervenire sul ritardo che ancora riguarda la bassa alfabetizzazione digitale e, conseguentemente, la bassa propensione dei cittadini e delle imprese italiani all’accesso ai servizi digitali” sottolineando come la maturità digitale dei cittadini italiani sia in “una situazione di stallo”È necessario quindi pensare rapidamente ad azioni incisive capillarmente e nei territori. Il tema richiede anche interventi permanenti e non estemporanei, con la consapevolezza che questa è la chiave principale per la crescita per la quale occorre una presa in carico del problema collettiva. Gli esempi, anche nel nostro paese, ai quali riferirci per ispirarci replicandoli nei nostri territori non mancano: in Emilia Romagna, con i punti Pane e Internet, in Toscana, con i PAAS, in Veneto con i p3@Veneti, e presto a Roma, con i punti Roma Facile. Ma ciò che più conta è capire che, da un lato sì, è vero, sono le istituzioni a doversi sentire un po’ più il fiato sul collo da parte nostra nel “pretendere” formazione e informazione adeguata sul digitale, dall’altro, però, è ciascuno di noi cittadini, addetti ai lavori e non, che nel proprio piccolo può fare qualcosa in più: diffondendo maggiore fiducia nei servizi già resi dal digitale (siamo, ad esempio, i peggiori utilizzatori di homebanking d’Europa), raccontandolo utile e sopratutto “facile”, placando gli allarmismi da “avvento di un mondo dominato dalle macchine” e… dicendo ai genitori dei ragazzi che incontriamo nel nostro percorso che i nostri figli non devono essere tutti medici e avvocati e che c’è un gran bisogno di persone che studiano il valore dei dati, oggi autentica ricchezza, considerata volano dell’economia locale grazie al riutilizzo dei dati, per trasformarli in informazioni che poi possano diventare conoscenza e suffragare decisioni più giuste; e se proprio non desiderano che i propri figli diventino dei data scientist, di cui, ripeto, c’è un gran bisogno sia nel settore pubblico che privato, allora, come genitori e formatori, abbiamo senz’altro il dovere di adoperarci perché i nostri figli non vengano inghiottiti da quello smartphone diventato oramai un prolungamento della loro mano, facendo di tutto perché raggiungano delle competenze digitali di base adeguate che consentano loro di vivere a pieno titolo e con le giuste difese una cittadinanza digitale consapevole.  E io non smetterò mai di parlare di questi temi e l’auspicio è che saremo sempre di più a farlo!

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