Direttiva Ue sulle case green e le auto elettriche, ma chi paga?

di Attilio Runello. Il Consiglio europeo ha approvato la direttiva sulle case green. Unici voti contrari quelli dell’Italia e dell’Ungheria.

Giorgetti ha semplicemente commentato dicendo che il problema non è tanto quello del rifacimento delle case ma di chi paga. Dalla direttiva infatti non è chiaro se ci saranno fondi europei, se sarà a carico dello stato o dei privati. In quest’ultimo caso bisognerà ricorrere a un nuovo super bonus?

Quello che a parere di Giorgetti è la principale causa della impossibilità di ridurre il debito. Insomma pesa come un macigno sui conti pubblici.

Dopo il regolamento sulle auto elettriche che dal 2035 dovrebbero sostituire quelle a diesel e benzina e a distanza di dieci anni non si riescono a vendere, dopo il blocco temporaneo della legge sulla biodiversità che produrrebbe una perdita per gli agricoltori e probabilmente farebbe salire i prezzi dei prodotti al supermercato e un danno al nostro fiore all’occhiello: l’agroalimentare, la ristorazione, è passata quella sulle case green che ha effetto a partire dai prossimi anni.

Ritornando a queste possiamo entrare nel dettaglio. Cambiare la caldaia e magari sostituirla con una pompa a calore. Installare pannelli solari, modificare gli infissi o fare il cappotto termico.

La direttiva Ue sulle case green costringerà a intervenire con lavori di ristrutturazione in case ed edifici che costano in media da un minimo di 10mila a un massimo di 60mila euro. Lo stimano esperti, consumatori, sindacati e società di costruzione, per un conto totale che per l’Italia, secondo Unimpresa, può arrivare anche a 270 miliardi. Di questi, ad oggi, solo 30 o 40 sono recuperabili tra Pnrr e nuovi fondi Ue, o conteggiando gli interventi anti-sismici già fatti. Per non parlare poi dei regolamenti sulla pesca, materia su cui l’Unione europea può legiferare e che in Italia hanno fatto perdere migliaia di posti di lavoro e di pescato.

Anche in questo caso l’Unione interviene con criteri condivisibili – preservare i mari da un eccessivo sfruttamento – ma che vanno realizzati in modo socioeconomico sostenibile. Che in un paese con settemila chilometri di coste e una infinità di porti si debba importare gran parte del pesce che finisce nei nostri mercati è incomprensibile.

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