Siamo stanchi, non ne possiamo più. Forse è giunto il tempo di arrabbiarci per davvero.

di Grazia Nonis. Sono figlia di migranti del nord est dello stivale, nata negli anni sessanta e vissuta per un ventennio nelle case di cortile della Milano dei Navigli. Oggi regno della Movida meneghina, ieri della povertà dei “teroni” e dei “polentoni” d’Italia sbarcati al nord in cerca di una vita migliore. Noi siamo quelli che si sono integrati senza l’aiuto degli assistenti sociali, dei mediatori culturali, degli psicologi e degli odierni parolai che manco sanno di cosa stanno parlando.
Pomposi opinionisti che non hanno provato l’ebbrezza dell’unica stanza cucina-camera-salotto-soggiorno. E nemmeno del gabinetto in comune collocato a metà della ringhiera tra due file di appartamenti. Quello col buco alla turca e i fogli di giornale appesi al chiodo infilato nel muro, i cento piani di ruvidezza da utilizzare dopo l’evacuazione corporale quotidiana.
Il nostro abbigliamento era il risultato di un accurato riciclo. Un miscuglio di periodi storici, un’accozzaglia di scampoli tenuti nella cassapanca e seppelliti sotto la naftalina. Da tirar fuori all’occorrenza, per imbastire il vestito della festa, per andare in chiesa la domenica o partecipare ad un matrimonio.
Le scarpe dovevano essere di almeno due misure più grandi, imbottite in punta da un abbondante strato di bambagia. Proibito correre. Molto meglio camminare lentamente, per evitare la perdita della calzatura o l’effetto catapulta che ci avrebbe scaraventato col muso per terra.
Ma non ci facevamo grandi menate esistenziali. O forse eravamo molto abili a fingere che non ce ne importasse. Ma ognuno di noi, in cuor suo, conservava un cantuccio ove stipare le umiliazioni, i nodi in gola e gli echi delle liti famigliari che rimbalzavano da una ringhiera all’altra, penetrando i nostri timpani, torturando le nostre menti bambine. Facevamo finta di non sentire, mentre con mani e piedi impiegavamo il tempo sfrenandoci in cortile, per la strada, all’oratorio. Abbiamo giocato, corso, saltato, sbucciato mani e ginocchia. Abbiamo pianto. Il maestro delle elementari, Dio lo abbia in gloria, ci aveva insegnato il reciproco rispetto, e con umanità, polso e rigore fece in modo che i Conti, i Principi, i servi e contadini fossero tutti uguali.
Ahimè, alle medie e alle superiore l’antifona cambiò, ed imparammo a nostre spese che gli insegnanti non erano fatti tutti della stessa pasta: quelli che non ci giudicavano per il nostro ceto sociale, e gli idioti che ci ricordavano sempre da dove venivamo e dove non saremmo mai andati. Il bullismo di allora era soprattutto di tipo morale. I bambini di ieri, come quelli di oggi, erano abili nel ferire con le parole. Le botte erano la nostra reazione al cosiddetto bullismo.
A fine rissa, non esistevano né bulli né vittime. L’occhio nero veniva portato con indifferenza, nel più completo silenzio e con la speranza che il professore non chiamasse a rapporto i genitori. In quel caso, a torto o a ragione, le si buscava anche da loro. Non ricordo alcun tipo di aiuto sociale. Il messaggio del Comune e dello Stato era chiarissimo: arrangiatevi. Grazie a Dio il lavoro non mancava, e ai teroni e ai polentoni questo era più che sufficiente. Devo correggermi, stavo scordando il “regalo statale” della colonia estiva invernale in quel di Selvino. Un lager tra i monti che oggi vedrebbe insegnanti, “signorine”, suore e medici in stato di fermo, arresto e poi condanna.
Ed ora vi spiegherò perché con pochi e semplicissimi esempi: La mattina c’era il controllo dei pidocchi. A testa in giù su di un lenzuolo bianco e immacolato. Ci pettinavano i capelli controllando uova e bestioline. Se t’andava male passavi direttamente dal giardiniere, che ti radeva a zero e ti ficcava in testa un cappello di lana. Dio mio, quante Ave Maria e Padre Nostro prima di ogni tortura mattutina. E poi, denti fissi, semplicemente cariati, cavati dalle bocche dei bimbi. Senza anestesia. In piedi, come i cavalli. Oppure, la caduta dalle scale, naso rotto, faccia tumefatta, occhi gonfi, pesti, chiusi. Il gonfiore passa, il naso ormai è rotto e non s’aggiusta. Stupida!
La prossima volta stai attenta a dove guardi. E poi, piede sulla sedia, spruzzata di alcol e taglio di carne su unghie incarnite. Così, a vivo, a crudo, come si fa con le bestie al macello. Un dolore così grande da rimanere impresso nella memoria a distanza di quarant’anni. Abbiamo lottato, studiato, lavorato notte e giorno per poter cambiare la nostra vita, per migliorarla e poterci strappare di dosso l’etichetta di “mediocre bambino del popolo che non andrà mai da nessuna parte. Il nostro passato, le tribolazioni e le ferite dell’anima ci hanno fatto diventare persone forti. Donne con le palle e uomini coi controcoglioni che non si sono mai vendicati ferendo, torturando o uccidendo a causa di una “Società” che ci è passata accanto senza mai sfiorarci.
“Polentoni e Teroni” di seconda e terza generazione che pensavano di essersi lasciati la disperazione alle spalle ed oggi sono costretti, invece, a fare i conti con la recessione economica, la disoccupazione e l’obbligo di dover accettare, capire e calare braghe di fronte a popoli e culture che rifiutano noi e la nostra benedetta o maledetta integrazione, troppo spesso in nome di un Dio che li ha resi dei folli assassini senza coscienza.
Siamo stanchi di dover prendere lezioni di vita da fior fior di sociologi, psicologi o esperti di politica internazionale che si sperticano la lingua tentando invano di giustificare l’ingiustificabile, e spacciandoci per oro colato la balla del: terrorista islamico a causa di disagio da mancata integrazione, frustrazione e crisi d’identità. Come se le colpe fossero sempre e solo nostre, mai loro.
Siamo stanchi di dover combattere per una casa popolare che ci sarebbe spettata ma che ci viene soffiata sul traguardo da chi ultimo arriva e meglio alloggia; accontentarci di tre euro l’ora di paga oraria perché i “più bisognosi” se li fanno bastare e ci rovinano la piazza. Non c’interessa più sapere di chi è la colpa: dello Stato, dell’Europa, della Merkel, di Juncker, del Papa, di Renzi, o dei quarantamila ladroni.
Siamo stanchi, non ne possiamo più. Forse è giunto il tempo di arrabbiarci per davvero.

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