Premierato all’italiana, la realtà è irriformabile.

di Mario Seminerio. Da quando è nato questo governo, tengo sotto mano e sott’occhio una copia del programma elettorale di Fratelli d’Italia e della coalizione, perché mi pare di aver intuito una qualche determinazione nel cercare di attuarlo. Se vivessimo in un paese normale, questa sarebbe una non notizia: vi pare che, a distanza di un anno dall’insediamento, un governo dovrebbe accantonare i punti qualificanti del suo programma? Ma, non essendo questo un paese normale bensì uno di cantastorie e affabulatori lisergici, questa parvenza di coerenza mi colpisce positivamente.

Ovviamente, può esserci coerenza anche nel perseguimento dell’obiettivo di gettarsi da una rupe, ma non facciamo troppa filosofia e guardiamo al punto relativo alle riforme costituzionali e in particolare a quella relativa all’elezione diretta del capo dell’esecutivo, la cui bozza è stata presentata giorni addietro.

UN PREMIER DA BOOM ECONOMICO.

Una bozza piuttosto lasca, nel senso che manca di “dettagli” che possono fare la differenza tra un’idiozia e una riforma, ma vedremo il percorso parlamentare, ovviamente non breve. Da cosa origina, questo tentativo di riforma? Da una premessa che è “ben” spiegata nel programma di Fratelli d’Italia, anche se lì si parla di “presidenzialismo” e non di premierato. Forse i nostri eroi non se la sono sentita di spingersi così in fondo.

Negli ultimi 20 anni l’Italia ha avuto 11 diversi governi. Una instabilità che ci indebolisce nei rapporti internazionali e che penalizza gli italiani, perché governi che durano così poco non hanno una visione di lungo periodo, ma cercano solo il facile consenso nell’immediato. Anche per questo da decenni l’Italia cresce meno della media europea. L’instabilità politica è anche uno dei principali fattori del nostro declino economico. Assicurare governi stabili, grazie al presidenzialismo, non è una misura astratta: è la più potente misura economica di cui necessita l’Italia.

Ecco, quindi, che questa riforma nasce per neutralizzare il rischio che gli odiati vincoli di realtà ripropongano i “ribaltoni”: si colpisce tutto quello che in passato ha causato la caduta di siffatti governi, presentando la riforma come necessaria per conseguire la crescita economica, che qualche sempliciotto vorrebbe legata solo alla anzianità in carica di un governo. Bello sarebbe, se fosse vero.

Non sono un costituzionalista, leggo con interesse le analisi di quest’ultimi sul progetto di riforma. Sono un cittadino, contribuente ed elettore, quindi mi preparo in caso la riforma non avesse il sostegno dei due terzi delle Camere e si giungesse al referendum confermativo. Ma alcuni punti della bozza posso commentarli sulla base di considerazioni generiche sui sistemi di incentivi e sulle azioni e reazioni umane a tali incentivi. Posso? Direi di sì.

IL PROGRAMMA, COSTI QUEL CHE COSTI.

Ad esempio, mi pare che la riforma attenui la natura parlamentare del sistema italiano. Nel senso che impedisce che le maggioranze si formino più o meno liberamente nelle camere. Qui sono laico, nel senso che se ne può discutere. Ma questo riferimento ossessivo al “programma”, che poi sarebbe “il contratto con gli italiani” di berlusconiana memoria, mi pare un po’ rigido, come approccio.

In un quinquennio di legislatura possono accadere moltissime cose, tali da costringere a deviare dal libro dei sogni di campagna elettorale. Di certo, di fronte a cambiamenti e shock esterni tali da richiedere di cambiare condotte rispetto a quanto promesso, a poco e nulla varrebbe la giustificazione che a tali shock esterni deve rispondere solo la maggioranza che ha eletto il premier, un’era geologica addietro.

Poi, il premierato italiano è sui generis, nel senso che non è importato da modelli esteri. Per un paese che soffre di sovrano provincialismo e passa il tempo a strepitare “facciamo come”, inserendo a caso nomi di altri paesi, pare un passo avanti sulla strada dell’originalità. Ma attenzione alla fallacia: se un modello non esiste da nessun’altra parte, potrebbe essere a causa della sua inapplicabilità alla realtà e di sue intrinseche assurdità. Si può essere originali anche in questo modo onirico e disfunzionale.

In Germania c’è il premierato, un presidente notaio (vero, a differenza che in Italia) ma anche la sfiducia costruttiva, a rimarcare il ruolo del parlamento. Solo per fare un esempio tagliato grosso. Nella versione italiana del premierato, l’unto dal popolo non sarebbe onnipotente, nel senso che il capo dello stato continuerebbe a nominare i ministri “su proposta” del presidente del consiglio. Il parlamentarismo è preservato come simulacro, nel senso che il premier deve ricevere la fiducia di entrambe le camere. Si dirà che sono aspetti minori, ma a volte dietro gli aspetti minori si celano problemi maggiori.

Il premier italiano post riforma non può inoltre rimuovere i ministri, si deve comunque passare attraverso la sfiducia individuale. Qualche malizioso potrebbe commentare che, in tal modo, i partiti della coalizione preservano il proprio robusto potere di interdizione. Meglio così, dirà qualcuno: meglio un premier irrobustito “quanto basta” che un premier quasi dittatore. Sì ma allora cosa riformiamo a fare se alla fine restano i colpi di palazzo, pur se confinati alla maggioranza?

ZUFFE IN COALIZIONE.

Piuttosto surreale è la parte relativa al “secondo premier”, quello che subentra al primo dopo una crisi. Costui deve essere un parlamentare di maggioranza, dedito a perseguire il mitologico programma premiato nelle urne. E quindi, che cambierebbe? Nulla, anzi una cosa: che il premier unto ed eletto dal popolo sovrano sarebbe sotto potenziale ricatto della propria maggioranza. Se non funziona neppure il secondo premier, che sulla carta sembra più forte del primo perché la maggioranza dei tacchini parlamentari tenterà comunque di evitare di anticipare il Natale, cioè lo scioglimento delle camere, si torna alle urne.

Ma che accadrebbe, in quel caso? Che gli ex coalizzati tornerebbero uniti d’amore e d’accordo presentandosi agli elettori sovrani nella stessa coesa squadra che si è scannata fino a poco tempo prima? Sembrano i pentapartiti della Prima Repubblica: vota che ti rivota, cambiano le sedie e qualche nome, e si riparte. Ma erano altri tempi: c’era il “Fattore K“, nel senso che il Pci non doveva andare al governo e si faceva di necessità virtù, entro un sistema parlamentare ma dominato dalle segreterie dei partiti. Le coalizioni non nascevano prima del voto ma gli elettori erano rassegnati a vederle tornare, al massimo con qualche zerovirgola di differenza tra partiti, giusto per legittimare qualche strapuntino in più in Rai e controllate pubbliche.

Fonte: https://phastidio.net

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