Marco Impiglia e il suo libro… da ‘Scudetto’!

di Alberto Sigona. Prendendo spunto dalla sua ultima fatica letteraria “Il mio nome è Scudetto”, dedicata ad uno dei simboli più popolari dello sport italico, ne abbiamo approfittato per cimentarci con Marco Impiglia in una erudita escursione nella storia del nostro Campionato di calcio di Serie A, addentrandoci fra sapienti ricerche e scoperte sensazionali.

Salve, vuole parlarci del suo ultimo libro “Il mio nome è Scudetto”?

È un’opera che parte da lontano. Dal periodo in cui lavoravo per il Corriere dello Sport-Stadio, con la fortuna di avere come Direttore Italo Cucci, uno dei più importanti giornalisti sportivi del Novecento. La scoperta del cosiddetto “scudetto di d’Annunzio” la feci nel 1994, svolgendo ricerche nei giorni del Mondiale USA. L’anno dopo, uscì come “scoop” sul giornale. Nel 1997 la presentai ad un convegno internazionale di storia dello sport militare tenuto al Foro Italico. Infine, una dozzina di anni fa, la FIGC con un comunicato ufficiale, “accettò” la cosa, e da quell’istante è diventata una acquisizione del web. Una verità di Wikipedia, se mi capisci…

Nel periodo del Covid ho deciso di riprendere la ricerca e di estenderla a una storia che fosse la più completa possibile del simbolo dello Scudetto. Lo scrivo con la maiuscola perché stiamo parlando di una icona dell’immaginario sportivo, e non solo, di tutti noi che abbiamo come lingua madre l’italiano. Così, sono partito dalle radici del simbolo, ovvero dalla maniera di rappresentare nello sport il fatto di essere atleti italiani o campioni in una determinata specialità. Perché queste sono le due “accezioni” del termine “scudetto”, a ben vedere.

Ho capito subito, da una foto di famiglia emersa da un cassetto e al quale sono giunto attraverso contatti via FB – una modalità di ricerca che non esisteva nel 1994 – che nel saggio riguardante Gabriele d’Annunzio avevo commesso un errore, dovuto alla scarsa qualità del materiale di emeroteca a disposizione: lo scudetto dannunziano del 1920 era a foggia “svizzera” e non “sannitica” come avevo malamente interpretato. Può sembrare ai profani una inezia, ma ti chiarisco che questo libro si avvale di un approfondimento della scienza dell’araldica che mi ha impegnato non poco, decisiva per la qualità dell’opera.

Scudetto 1920-2020, dalla beffa di D'Annunzio alla ricomparsa nel dopoguerra - TRIESTE.newsAltro punto in questione era il seguente: lo Scudetto dannunziano aveva influito sulla scelta del 1924 da parte della Federcalcio di istituire un «distintivo tricolore» per la squadra campione d’Italia? Tra l’altro proprio a foggia svizzera? La risposta è stata che i due “scudetti” nulla avevano in comune, e che era stato il Genoa Football Club, in assenza di disposizione sul modello del distintivo, a scegliere la foggia rifacendosi al suo emblema, che a sua volta riprendeva l’arme cittadino: croce rossa di San Giorgio su campo bianco. La differenza, rispetto a d’Annunzio, stava nel fatto che quel distintivo – che ancora i giornali non chiamavano “scudetto”, ma sarebbero bastate poche stagioni agonistiche per arrivarci – aveva sulla pala centrale il blasone della dinastia regnante, i Sabaudi: croce bianca su campo rosso.

Questo, dunque, l’A e il B dello Scudetto: d’Annunzio nel 1920 e il Genoa del 1924; con un parallelismo religioso (la storia delle religioni era un mio pallino di universitario) che chiama in causa la Santissima trinità: lo Spirito Santo e il Padre: d’Annunzio e il Genoa.

FIGCMa la storia non fila via così piana, in realtà. Il fascismo, infatti, sostituì lo scudetto tricolore con il cosiddetto “scudetto binario”, ossia lo scudo sabaudo biancorosso col fascio a mancina, “a tenente” nella terminologia araldica. La Nazionale che si aggiudicò i due Mondiali nel 1934 (in casa, con casi di corruzione sulle terne arbitrali piuttosto plateali, e che nel 2013 denunciai in un volume edito dalla FIFA) e le stesse squadre campioni d’Italia esibivano lo scudetto binario. Una apologia del regime fascista.

La sintesi – il Figlio – della vicenda delle origini del simbolo dello Scudetto, ci porta invece al 1945. E precisamente al settembre del 1945, quando il Torino campione d’Italia viene chiamato a giocare la prima amichevole di stagione a Losanna, sul Lago Lemano, e i giocatori e i dirigenti torinisti scelgono di apporre sulle maglie uno “scudetto repubblicano”, ovvero senza il blasone sabaudo sulla pala bianca, a ripetere la bandiera del regno d’Italia. Nel caos di una Federcalcio e di un Paese intero che stavano faticosamente risollevandosi dal duplice shock della guerra perduta e della guerra civile, dopo vent’anni di oppressivo regime totalitario, il fatto del Torino repubblicano passò abbastanza inosservato. O comunque non si volle accentuarne l’importanza, giacché il Torino bello tranquillo in giro a giocare sui campi d’Italia significava fare una reclàme smaccata alla repubblica contro la monarchia. In effetti, alla vigilia del referendum istituzionale del 2 giugno 1946, otto giocatori del Torino firmarono un volantino politico del Partito Comunista a favore della scelta repubblicana.

Morale della favola: il nostro attuale scudetto, che nel volume ho chiamato “Grande Torino”, e che sotto il profilo araldico ha una foggia gotica, simile a quella sannitica ma più aggraziata e slanciata, è nato per volontà del popolo. E ha preceduto di nove mesi l’avvento della Repubblica Italiana. Non per nulla, il libro l’ho dedicato a Mattarella.

L’ultima parte rende conto delle ulteriori trasformazioni dal 1945 ad oggi. Ovvero la comparsa degli scudetti “CONI” e “Italia” nel 1947-48; le prime rivendicazioni del CONI di copyright sul suo modello – quello con i cinque cerchi e la stella in capo per intenderci – che risalgono al periodo immediatamente precedente le Olimpiadi di Roma ’60. Infine l’ingresso del simbolo dello Scudetto dapprima nei vocabolari e poi nel frullatore del marketing e degli sponsor, che l’hanno stravolto non poco.

Oggi nel giugno del 2022, sia la FIGC che il CONI hanno simboli che riprendono da vicino lo “scudetto Grande Torino”, ma non lo copiano pari pari. Questo perché il simbolo dello scudetto repubblicano, essendo nato direttamente dal popolo e avendo ricevuto una sorta di sacralizzazione dalla scomparsa della squadra del Torino nel disastro aereo di Superga del 4 maggio 1949, non ha un copyright, e tutti possono usarlo liberamente. Lo vedete in continuazione, girando per le strade delle città o per le contrade e le piazze della rete. Lo Scudetto è sostanzialmente un prodotto anarchico.

Nel libro, che è autoprodotto e si può avere a casa scrivendo all’indirizzo marco.impiglia@gmail.com, spiego tutto questo, attraverso 256 pagine in formato 21×28 e una miriade di illustrazioni a colori.

Gabriele D’Annunzio e lo Scudetto: vogliamo spiegare ai lettori più giovani ed inesperti di storia del calcio che nesso c’è fra il celebre poeta ed il Tricolore che ogni anno le squadre Campioni d’Italia si appuntano sul petto?

Spero che i tuoi “lettori più giovani” sappiano, almeno sommariamente, chi è stato d’Annunzio e il ruolo che ha occupato nella storia politica e militare della nostra Nazione, o nella cultura europea tout court. Stiamo parlando di uno dei padri del Decadentismo, fautore dell’Interventismo nella Grande Guerra che liberò Trento e Trieste dal giogo austro-ungarico, forgiatore di parole nuove, motti e meme pubblicitari a getto continuo, nonché tra gli ispiratori, secondo alcuni storici e politici (ma qui non sono d’accordo), dello stesso movimento fascista. Quasi logico che sia toccato a lui di “inventare” il primo scudetto repubblicano.

Poichè mi sono dilungato nell’esporre i tanti temi del libro, accennando per forza di cose anche al Vate, qui vorrei essere davvero sintetico. D’Annunzio si sentiva un artista e un guerriero: due lati della stessa medaglia, e nel guerriero era compresa la sua tendenza quasi maniacale a conquistare cuori femminili. Superbo “troubador”, per dire. Gli accordi post bellici, gestiti soprattutto dalle altre nazioni uscite vincitrici, non avevano concesso la città di Fiume al Regno d’Italia, per cui c’era il rischio concreto che la Jugoslavia se ne impadronisse. E questo a dispetto del fatto che la maggior parte della popolazione di quelle zone dell’Istria parlasse italiano, con antiche ascendenze veneziane. D’Annunzio partì nell’estate del 1919 da Ronchi, vicino Trieste, con un gruppo di suoi “legionari” reduci dalla guerra che non si rassegnavano a tornare a casa e deporre le armi. Facilmente occupò Fiume, con il beneplacito di quasi tutti gli abitanti.

La tenne sua per oltre un anno, fino al “Natale di sangue” del 1920. Nel mentre, la organizzò come gli piaceva, con una costituzione scritta che all’epoca si presentò ultra-moderna, e che dava importanza alle attività sportive. In questo ambito, per rinsaldare i rapporti tra i cittadini e i suoi militari che chiamava “teste di ferro”, allestì una partita al campo di Cantrida Borgomarina. I fiumani scesero sul terreno di gioco in maglia nera con, cuciti vistosamente su un fianco i colori blu, giallo e rosso della città istriana; i militari salutarono il pubblico sulle tribune, d’Annunzio al posto d’onore, con una bella maglia azzurro mare che era il colore dei nazionalisti. In più, avevano sul petto lo “scudetto tricolore” senza il blasone sabaudo al centro, e quindi in polemica col re Vittorio Emanuele III che si ostinava a non riconoscere l’impresa. Si disputarono due sfide, l’8 febbraio 1920 e il 9 maggio dello stesso anno, entrambe appannaggio dei cittadini.

Due fotoreporter della rivista Lo Sport Illustrato, il settimanale della Gazzetta dello Sport, scattarono le foto che hanno creato l’epica dello “scudetto di d’Annunzio”. Lascio al lettore la libertà di opinare sul fatto che sia stato il Vate pescarese il primo genitore dello Scudetto oppure no. Ma tenete in considerazione che quello di Fiume era a foggia svizzera, come lo stemma della AS Roma, e lo scudetto del 1945 è gotico.

È vero che la FIGC approvò ufficialmente lo scudetto nel 1924, e che il primo a metterlo sulle maglie fu il Genoa?

LO SCUDETTO CUCITO, PRIMIZIA DEL CLUB – Genoa Cricket and Football Club – Official WebsiteQuesta e le due domande seguenti mi danno l’opportunità di sciogliere meglio alcuni nodi storiografici che caratterizzano la vicenda delle origini e degli sviluppi dello Scudetto. Tra i fautori del “distintivo tricolore”, approvato dalla FIGC nel 1924, c’è colui che è stato anche il suggeritore, nel gennaio del 1911, della prima maglia azzurra. Ossia l’avvocato Luigi Bozino, fondatore della squadra di calcio della Pro Vercelli. Le mitiche “camicie bianche” dominatrici dei campionati d’anteguerra. La regina delle cosiddette “provinciali”. Nell’autunno del 1923, da presidente federale, Bozino – personaggio notevolissimo quanto poco battuto dalla storiografia contemporanea, che è stato il nostro primo membro della FIFA per via della sua amicizia con Jules Rimet – instaurò una commissione che elaborò vari mutamenti ai regolamenti dei campionati, e tra questi la novità del “distintivo” di campioni. Se vogliamo individuare una data precisa e un luogo preciso per la sua nascita, io dico 29 giugno 1924 a Bologna, nel Palazzo Paleotti al civico 34 della centralissima via Zamboni. Lì, oggi, sta la sede del Dipartimento di Filologia e Italianistica della Università, per cui, anche solo fingendovi studenti appassionati di belle lettere, potete visitare la calcistica “Betlemme”.

Nel settembre del 1924 il Genoa, che aveva appena sconfitto nella doppia finale nord/sud il Savoia di Torre Annunziata, mise il distintivo sulle maglie secondo le modalità che ho prima descritto. In perfetta autonomia, giacchè nei regolamenti non si diceva altro che dovesse essere “tricolore”. Poi toccò al Bologna nel 1925 e alla Juventus nel 1926. Nel 1928 il Torino vi pose un fascio a supporto. Nel 1931 la Juve maramalda lo fece sparire sostituendolo con lo “scudetto binario”.

Prima che la Federazione Italiana Calcio introducesse questo simbolo, in che modo i Campioni d’Italia venivano premiati?

Federazione Italiana Giuoco Calcio | LexItalia.itQui faccio riferimento a un’altra scoperta interessante che sta dentro il libro: negli anni che vanno dal 1909 al 1915, ovvero quando l’originaria Federazione Italiana Football, la FIF, nata a Torino nel 1898, mutò il nome in Federazione Italiana del Giuoco del Calcio, nessun emblema contraddistingueva la squadra campione d’Italia. Tuttavia, esiste una lettera del presidente federale Montù che, nel maggio del 1914, concede al capitano del Casale FC, club appena laureatosi campione della Lega Nord, una speciale medaglia di “campioni d’Italia”. E questo prima di svolgere in luglio la finale con la Lazio vincitrice della Lega Sud! C’era una medaglia, dunque, destinata solo ai campioni. Medaglia che serviva anche per un logo che campeggiava sulle carte federali, anche questo sconosciuto alla stessa FIGC fino ad oggi. Medaglia e logo stano nel libro. Nel prossimo autunno presenterò la cosa a Coverciano grazie a un accordo con la Fondazione Franchi, unitamente al volume.

Qual è stata a suo parere la squadra che più di ogni altra ha dato lustro a questo simbolo? Forse il Grande Torino?

Il grande Torino - Solofoggia.itDirei proprio di sì, anche per tutto quello che ho detto a proposito del ruolo che il club granata ha svolto nella “poiesis”. Il Torino che, tra l’altro, venne privato nel 1927 di uno scudetto vinto meritatamente, per un’impuntatura dell’allora presidente federale, Leandro Arpinati, che diede credito a un’ipotesi di accordo in un derby con la Juventus. Pensate che il Toro giocò le prime partite del campionato 1927-28 con lo scudetto sulle maglie, e poi, in una trasferta sul campo del Padova, fu costretto a toglierselo. Una cosa mai vista prima e mai più ripetuta negli annali del calcio italiano: “lo scudetto-non-scudetto”.

C’è mai stato uno Scudetto vinto in maniera totalmente immeritata?

Genoa -Bologna e lo Scudetto delle Pistole - LiguriasportStiamo sempre in quei “ruggenti” anni ’20. Nella stagione 1924-25 il Genoa, che per l’appunto aveva il primo scudetto della storia cucito sulle casacche, fu costretto a disputare ben cinque spareggi col Bologna per ribadire la sua superiorità. Superiorità che sul campo c’era, ma nella mente di molti supporter bolognesi, il ras Arpinati in testa, non aveva motivo di essere. Alla quinta “finalissima”, giocata ad agosto alle otto del mattino su un campetto milanese a porte chiuse, i grifoni rossoblu soccombettero infine ai veltri rossoblu. Nel frattempo, durante un fortuito incrocio fra treni alla stazione di Porta Nuova a Torino, i giocatori genoani erano stati presi a pistolettate dai tifosi della “Dotta”. Insomma, le due città che hanno avuto un ruolo preminente nella genesi dello Scudetto hanno, parimenti, avuto a che fare con l’episodio più scandaloso. Uno storico inglese, il professor John Foot che ebbi modo di conoscere una volta a Siviglia durante un congresso, ha scritto in un suo libro che si tratta del primo “theft”, ladrocinio, di una lunga serie del “Calcio”.

E quello conquistato contro ogni previsione?

Il grande Verona di trent'anni fa - Memories - Sport MirrorDa simpatizzante laziale, potrei dire che fu lo scudetto del 2001, vinto “alla radio” per la disfatta incredibile che la Juve patì sul campo del Perugia, con un acquazzone pazzesco e “lampadina” Pierluigi Collina come arbitro. Tuttavia, da storico del calcio, il mio dito punta sul quadrante della Time Machine verso un’altra data: 12 maggio 1985 al vecchio stadio “Azzurri d’Italia” di Bergamo. Il Verona di Osvaldo Bagnoli operò un autentico miracolo. I giocatori più forti che aveva in rosa erano Briegel, Elkjaer, Tricella, Galderisi e Di Gennaro… La città di Giulietta e Romeo difficilmente scenderà più la treccia dal balcone per appenderci un altro scudetto. A meno che non intervengano i petroldollari arabi a cambiare le carte in tavola. Se ci pensate un attimo, se oggi un emiro del Qatar decidesse di comprare il Sudtirol in Serie B e di portarlo alla conquista del Titolo italiano nel giro di due anni, scommettete con me che ce la fa? Altro che Berlusca e il Monza di Galliani!

E quello che più di ogni altro è stato generatore di polemiche?

Ronaldo, Juve-Inter 1998 e il fallo di Iuliano: «Che bisogno avevano di quegli aiuti?». Del Piero: «Anni macchiati» - Corriere.itLo scudetto che la Juve rubò all’Inter di Ronaldo. Il famoso rigore della sfida decisiva con la Juve del 26 aprile 1998: il fallo di Iuliano sul “Fenomeno” brasiliano che annovero tra i più evidenti e solari nella storia dei campionati della Serie A. Giustamente, l’allora presidente nerazzurro Moratti disse, in diretta Rai-Tv, che la decisione della terna arbitrale gli era apparsa del tutto “normale”. Normale nella logica che circondava la gestione di quella Juventus condotta da “Lucky” Luciano Moggi: uno che aveva una decina di cellulari sempre accesi nella borsa, se non sbaglio. Non sarebbe trascorso poi molto tempo per la retrocessione d’Ufficio della Signora in Serie B. Ogni volta che c’è sul tabellone il Derby d’Italia, sui media rinfocolano le polemiche. Sul sito Laziowiki, per il quale scrivo abitualmente, ho pubblicato un raccontino – “Cinque rasature e un taglio” – in cui faccio il riepilogo ironico degli scudetti clamorosamente buggerati dalla Juventus dagli anni ’30 in poi. Devo ammettere che gli “zebroni” non mi stanno simpaticissimi. Tuttavia, non sono mai stato della categoria dei “tifosi-contro”, e quando la Juve gioca in Champions tifo come un “gobbo” qualsiasi. Mi sento prima di tutto, calcisticamente e sportivamente, “italiano”, e poi anche “laziale” e “romanista”. Già, perché sono pure l’unico “laziale-romanista” vivente sul pianeta. Sui giallorossi ho pubblicato cinque libri e innumerevoli saggi ed articoli. Un po’ di meno sui biancocelesti.

File:Rivera Gianni 02.jpg - WikipediaChi è stato il giocatore simbolo della Serie A? Penso ad esempio a Diego Maradona, Gunnar Nordahl, Michel Platini… E lei a chi pensa per primo?

Questa risposta dipende molto dal certificato di nascita di chi è chiamato in causa. Senza rifletterci, mi è venuto in mente Gianni Rivera, autentica star degli anni ’60 e ’70. Non saprei dire chi ha fatto parlare di più tra il “Golden Boy” e il Pibe de Oro”, entrambi sempre al centro dei riflettori sia sul campo che fuori. Metteteli vicino, uno accanto all’altro, “l’Abatino” dal sorriso “prenditelonelculo” e l’indio argentino dagli occhi spiritati, quelli che fecero fuggire a gambe levate il segnalinee dopo il gol al Mondale del 1994. Rivera e Maradona: Allegri li farebbe giocare insieme nella Juve 2022-23? Domanda della serie “impossibilia” che mi affascina parecchio. Ci vorrebbe Umberto Eco per fornire una risposta convincente e bene articolata.

Chiudiamo tornando al suo libro: perchè è arrivato alla decisione di stampare un numero limitato di copie?

Avrei potuto trovare un editore che, magari, mi stampava non 150 ma 1000 copie. Con un po’ di pazienza, tra i millanta che cantano in giro, l’avrei scovato. Ma avevo paura che l’impaginazione grafica non venisse al top com’era nei miei programmi. Conosco un tipografo a Frascati che è un “mago”. Infatti, la grafica del libro è venuta eccezionale. Chiunque l’ha avuto tra le mani, Matteo Marani per esempio, l’ha subito riconosciuto. Ora mi piacerebbe ricevere qualche “alloro” dall’alto. Ma so bene che è un’impresa ardua. Forse impossibile. Il volume contiene una appendice, il capitolo settimo, dedicata alla mostra itinerante sulla maglia azzurra curata da Mauro Grimaldi, un funzionario della FIGC molto vicino al presidente Gabriele Gravina. Ma, ripeto, mi bastano gli apprezzamenti dei lettori che ricevono il “pacco” per posta e rimangono sorpresi dalla qualità dell’opera. Trent’anni di esperienza nel campo della ricerca sono serviti a qualcosa. Le richieste vanno da Trieste in giù, come cantava la Raffa. Molte mi arrivano dal Meridione, siciliani, campani, pugliesi, più interessati loro all’argomento rispetto ai settentrionali. Ci sarebbe da riflettere anche su questo: dove sta andando l’Italia?

Grazie mille!!!

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