Lo Smart Working ha stigmatizzato i lavori… ‘inutili’.

di Redazione. Lo Smart Working, il lavoro agile, quello che si può fare anche restando a casa, così gettonato in tempi di pandemia, ha tracciato un solco indelebile nel mondo del lavoro. Una linea netta di demarcazione tra coloro che sono realmente necessari ed indispensabili per mandare avanti il paese, e chi invece non lo è affatto.

Insomma, da una parte il mondo del lavoro reale e concreto che lavora e che produce beni e servizi indispensabili e che spinge avanti la carretta (medici, infermieri, farmacisti, agricoltori, allevatori, pescatori, venditori di generi alimentari e di prima necessità, operai e tecnici dei maggiori sevizi come acqua, luce, gas, autostrade, immondizia, e poi le forze dell’ordine, gli addetti ai trasporti e pochi altri ancora). Dall’altra coloro che se lavorano o se ne stanno a casa nessuno se ne accorge.

Logicamente ognuno è libero di sentirsi dalla parte giusta, ovvero quella utile ed indispensabile alla società che lavora e produce, ma una cosa è certa: lo Smart Working per molti – anche se per colpe e responsabilità non proprie, ma che vanno ricercate in “alto” laddove il pesce puzza, ovvero sempre dalla “testa” – è stato un lungo periodo di ferie, a volte anche lautamente retribuito, per altri una fonte di notevole risparmio in termini di straordinari e buoni pasto sospesi a milioni di lavoratori.

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