Le vestali del Diritto Internazionale.

di Luca Anedda. Nel dibattito politico nazionale, sulla carta stampata e nei talk show, si assiste, oramai dal 24 febbraio 2022, ad un copione sempre uguale. Da una parte illustri e meno illustri professori e giornalisti che sostengono con piglio deciso che la Russia va condannata e possibilmente cancellata dalla faccia della terra perché invasore di uno stato sovrano.

Dall’altra chi tenta con varie argomentazioni, di far notare che le cose non sono proprio così chiare e precise, ma è necessario contestualizzarle in una cornice geopolitica più complessa, per poter capire come e perché siamo arrivati a questo punto.

Tutto inutile; i custodi del diritto internazionale ribattono che bene fanno i capi di governo Europei ed Americani a schierarsi compatti contro l’invasore, e queste posizioni sono le uniche compatibili con il nostro ordinamento democratico e le uniche che possono difendere i nostri valori contro quelli delle dittature oppressive.

Quando a questi luminari viene chiesto come e quando pensano che questa guerra debba finire, le ricette sono le più disparate; più è prestigioso l’intervistato più probabile che la risposta sicura sia: “con il totale ritiro dell’invasore dai territori occupati inclusa la Crimea sottratta all’Ucraina nel 2014”.

E quando ancora viene domandato quando e come sia possibile cominciare delle trattative di pace, allora con fastidio e non senza aver alzato un sopracciglio nel già corrucciato volto, viene risposto: “Quando Putin si ritirerà”; che praticamente vuol dire: “non se ne parla proprio”.

Ma non è perché vogliano essere reticenti, è che sarebbe sconveniente dire che bisogna aspettare le decisioni di Biden e possibilmente le elezioni del 2024. Già perché, per paradosso, a decidere come finirà questa guerra saranno quei pochi cittadini americani che andranno a votare il nuovo presidente degli Stati Uniti nel 2024.

Dobbiamo dunque sperare che il “regular Joe” americano, a cui onestamente di questa guerra non frega nulla, possa aiutarci a farla finire. Basta che nella campagna elettorale vengano toccati i tasti giusti e voilà che magari lo sfidante di Biden potrebbe acquisire discreti consensi nel proporre un disimpegno da questo costoso pantano ucraino.

Come in Iraq; dopo 20 anni di una inutile, sanguinosa e costosa invasione scatenata contro il diritto internazionale (non vi era nessun appoggio delle Nazioni Unite) e fornendo false prove di mai identificate armi di distruzioni di massa.

Oggi l’Iraq è un povero cumulo di macerie attraversato da rigurgiti terroristici di fondamentalisti islamici e che pur possedendo una delle più larghe riserve petrolifere del mondo, dei proventi del petrolio non vede nemmeno un dollaro; già perché i ricavi dell’esportazione dell’oro nero transitano nella Fed di New York per poi essere rigirati al traballante governo iracheno.

Ma poiché gli Stati Uniti hanno accusato l’Iraq di un uso improprio di questi fondi (aiuti all’Iran che è come noto sotto embargo), tali fondi sono congelati e rimangono a New York. Non male, per lo zio Sam.

E sempre nel pieno rispetto del Diritto Internazionale.

L’Afghanistan è un altro di quei Paesi in cui il Diritto Internazionale sembra non aver mai albergato; vuoi prima con l’invasione Russa poi con quella Americana; anche lì il risultato sono solo macerie ed anche lì sono tornati i fondamentalisti islamici, creando un fertile brodo di cultura antioccidentale; tanto è vero che ci si comincia ad interrogare di nuovo su quali potranno essere le prossime minacce terroristiche e sotto quale forma si manifesteranno. Ma questa è un’altra storia.

E sempre per non violare il diritto Internazionale che gli Americani fabbricarono l’incidente del golfo del Tonchino per poter intervenire in Vietnam con i marines e cominciare la guerra che tristemente, senza scopo e senza obiettivo, durò per venti anni. Ma il diritto internazionale era salvo.

Non provatevi nemmeno lontanamente a obiettare a questi signori e signore che la maggioranza dei cittadini europei è contraria alla continuazione sine die di questo conflitto e che vorrebbe vedere un maggiore sforzo verso la ricomposizione di questa guerra mediante una conferenza di pace nella quale cercare una soluzione a questo disastro largamente annunciato. Con il solito piglio quasi disgustato vi verrà detto che fanno bene i vertici politici a decidere unilateralmente ed a porte chiuse su quale via debba essere intrapresa. Il cittadino che non la pensa come le vestali deve essere educato perché ignora i codici e la Magna Carta e se continua a pensarla diversamente può sempre trovare posto nell’apposita lista di proscrizione appositamente redatta.

Il bello di questa commedia, anzi meglio sarebbe dire, il brutto di questa tragedia, è che non è nemmeno questa la portata principale di questo pranzo avvelenato. La vera guerra è già cominciata, ed è quella con la Cina nella quale anche qui quasi inconsapevolmente stiamo scivolando. Da parte cinese la guerra si combatte a colpi di Pil; da parte americana (e noi da leali sudditi seguiamo) con i cannoni. È stato approvato il nuovo bilancio della Difesa Americano per il 2023: 850 miliardi di dollari, il più alto della storia americana.

Ma qual è il motivo di questa guerra con la Cina?

Forse i cinesi stanno programmando un attacco agli Stati Uniti? Oppure uno sbarco in Europa tipo D Day, in Normandia? Stanno restringendo le vie di navigazione nell’oceano Atlantico o nel mediterraneo?

Anche se volessero non ne avrebbero la capacità. Si tratta invece di soldi. Banalmente di soldi. Il dollaro viene minacciato nella sua posizione egemone.

Certo che, santo cielo, anche gli americani ci mettono del loro, poverini. Con questa cosa dell’esportazione della democrazia, sanzionano a destra ed a manca e gli stati sanzionati non la prendono bene.

C’è chi resiste stoicamente (Cuba da oltre mezzo secolo), chi invece si impoverisce in maniera irrimediabile con sofferenze inimmaginabili per le popolazioni incolpevoli. Questo uso del dollaro come “arma di distruzione di massa” in questi ultimi mesi, complice anche la guerra in Ucraina, ha compattato un fronte che prima non esisteva: il resto del mondo.

Già perché al di là della vecchia Europa e degli Stati Uniti al resto del mondo non piace più molto la possibilità di cadere trappola dell’arbitraria decisione di un Paese che essendo egemone impone i suoi diktat, chiedo scusa, il rispetto del Diritto Internazionale, sanzionando una volta un Paese ed una volta un altro.

Quando il Premier Cinese si è recato in Arabia Saudita lo ha fatto portando concrete proposte commerciali; cooperazione congiunta per la costruzione di centrali nucleari, nello sviluppo della tecnologia spaziale, e sottoscrivendo un contratto trentennale di fornitura di petrolio ad un prezzo stabile. E per la prima volta da quando il petrodollaro ha fatto la sua comparsa, questa volta il contratto è in yuan, la divisa cinese.

Questa è quello che in termini anglosassoni si chiama una:” win win situation”. Tutti vincono e tutti sono contenti, nel rispetto delle proprie differenze politiche, culturali, ed economiche. Nessuno dei due da lezioni all’altro su come governare nel proprio paese: sarebbe una invasione inaccettabile di campo.

Saudi King Salman bin Abdulaziz and Chinese President Xi Jinping sign documents during a meeting in Riyadh, Saudi Arabia December 8, 2022. Bandar Algaloud/Courtesy of Saudi Royal Court/Handout via REUTERS

Sarà per questo motivo che Qin Gang, Ministro degli esteri cinese, ha chiuso l’accordo diplomatico del secolo: quello tra Arabia Saudita ed Iran, aprendo scenari fino a qualche tempo fa impensabili e dando una sberla diplomatica all’amministrazione Biden il cui rumore ancora risuona nei corridoi della Casa Bianca.

Questo approccio “win win” è la ricetta che sta creando il successo della BRI (Belt and Road Initiative) in Africa ed in Sud America.

Gli stati africani per uscire dalla morsa di povertà nella quale versano, hanno bisogno di massicci investimenti in infrastrutture. Viabilità, trasporti, energia elettrica, scuole, acqua potabile, sviluppo agricolo. La BRI riesce a fornire opere chiavi in mano in tempi e costi ragionevoli lasciando sul territorio qualche cosa di tangibile.

L’apporto occidentale, tralasciando il periodo coloniale che pure è stato devastante, è stato quello di fornire aiuti economici( pochi) in cambio di un massiccio sfruttamento delle risorse preziose che il continente nel suo insieme possiede. Anche la corruzione che è un potente freno endemico allo sviluppo di questi Paesi è stata sfruttata dall’occidente consentendo l’arricchimento smisurato di pochi al vertice, in cambio di un via libera allo sfruttamento di miniere di oro, diamanti, petrolio, litio, uranio. In sostanza non una “win win situation” ma un rapporto a somma zero: io guadagno e tu perdi.

La narrativa occidentale vuole che la Cina stia strozzando questi Paesi soffocandoli di debiti. In realtà analizzando alcuni casi non sembra essere affatto così; di recente vi è stato il default dello Sri Lanka e nella stampa occidentale si è additata la Cina e la BRI come la causa principale di ciò. In realtà l’indebitamento dello Sri Lanka verso Pechino equivaleva solo al 10% del debito totale. Il resto era tutto in mani occidentali ed in particolare di Regno Unito ed USA.

Anche le “cure” del FMI che, è bene ricordare, risiede in Pennsylvania Avenue a Washington, a due passi dalla Casa Bianca, sono in genere depressive e lasciano zero spazio allo sviluppo.

Forse avrete notato che il Segretario di Stato americano, Antony Blinken, sta compiendo numerosi viaggi in Africa proprio perché l’Amministrazione americana vuole mantenere saldo il controllo in questa parte di mondo. L’ultimo stato in ordine di tempo ad essere visitato è stato il Niger, strategico perché è uno dei pochi Paesi al mondo che possiede Uranio.

Inoltre, gli Usa hanno nel deserto una enorme base militare di Droni strategica per quella zona. Del resto gli Stati Uniti dispongono di oltre 1000 basi militari intorno al mondo (attive o attivabili in breve tempo), che usa come biglietto da visita nelle relazioni diplomatiche. La Cina ne ha 8. Avete letto bene: otto. La più grande a Djibouti.

Eppure se avete la pazienza di ascoltare le varie audizioni che il Congresso ha tenuto in questi giorni (sono un po’ lunghe, tre ore in media, ma a volte anche cinque) in materia sicurezza, difesa, commercio, vi potete rendere conto che la guerra con la Cina è già in atto. E non è che gli alleati della regione siano sempre molto lieti di ciò che gli viene suggerito di fare.

Di recente l’ex Primo Ministro Australiano, Paul Keating, ha aspramente criticato l’accordo firmato dai tre Paesi che compongono l’AUKUS (Australia, UK, U.S.) per l’acquisto di tre sottomarini a propulsione nucleare da parte della marina australiana per far fronte alla crescente minaccia cinese. Keating non solo denunciava l’enorme costo di questi sottomarini inglesi (con la stessa cifra se ne sarebbero potuti acquistare 15 di quelli tradizionali) ma si domandava quale tipo di minaccia la Cina sta ponendo verso questi tre Paesi: e la risposta a suo giudizio è: nessuna.

Certo se si considera la questione di Taiwan e delle acque del Mar Cinese (ora ribattezzato Indo Pacifico, ma che sempre di acque prospicenti alla Cina si tratta) allora il discorso cambia. Per la Cina la questione non si pone: Taiwan fa parte integrante della Cina “mainland”.

Lo hanno sempre detto e tale cosa è stata riconosciuta anche dagli Stati Uniti con l’accordo firmato tra Nixon e Mao sulla “one China policy”. Accordo tutt’ora in vigore anche alle Nazioni Unite dove Taiwan non è riconosciuta da nessun Paese e tutti riconoscono solo un solo stato: quello che fa capo a Pechino. Questo è l’ordine Internazionale. Ma poiché tale ordine è elastico, adesso che gli Stati Uniti unilateralmente stanno cambiando parere, con la solita questione della difesa della democrazia, la situazione sta diventando rovente.

Se ascoltate l’audizione tenuta alla Camera degli USA sulla “minaccia del Partito Comunista Cinese all’America” tenutasi il 28 Febbraio 2023, capirete che la previsione di una guerra con la Cina è per il 2015 o al massimo al 2017.

Con questa politica gli Stati Uniti stanno perdendo consensi anche in America Latina che è sempre stato il retro-cortile di casa propria. E la BRI ha attecchito facilmente, sempre in omaggio ad un trattamento paritario tra Paesi. Il Brasile è diventato in pochi anni un partner importantissimo arrivando a scambiare un volume di beni in un solo anno pari a quello che nel secolo scorso scambiava in un decennio.

Dunque, la vera minaccia esistenziale per gli Stati Uniti è la Cina colpevole di una crescita economica troppo imponente e provocatoria. Il che è vero, nel senso che in un trentennio non si è mai visto un Paese crescere così rapidamente. E questo ora spaventa anche se siamo stati proprio noi occidentali a favorire questa crescita: abbiamo delocalizzato in Asia per guadagnare di più e più velocemente, impoverendo e talvolta desertificando le nostre industrie. Smettendo di fare ricerca in alcuni settori, trasferendo tutto il Know how alle fabbriche cinesi.

E come i Giapponesi fecero negli anni Settanta i Cinesi sono diventati tremendamente bravi a copiare e a migliorare. Oggi a livello di costruzioni sono i migliori ed i più rapidi e non si creda che occupino solo manodopera cinese per i lavori della BRI; questa è un’altra narrativa che spesso si sente. Addirittura, si è raccontato di forza lavoro che proveniva dalle carceri cinesi e che veniva utilizzata in Africa. Molti dati dimostrano il contrario cioè che la forza cinese è pari ad un 20% di quella impiegata e la restante è locale.

Il simbolo di questa guerra dichiarata alla Cina da parte degli Stati Uniti a cui i suoi alleati dovranno consequenzialmente allinearsi e simboleggiato da TikTok. Il Ceo di TikTok America, Shou Chew, è stato messo alla graticola per cinque ore dalla commissione del Senato americano che voleva capire come TikTok spiasse gli americani ed il Governo americano.

In realtà TikTok è una società americana gestita da americani che ha il 20% di partecipazione cinese e che è completamente separata dalla Cina. In altre parole, noi, anche in Europa, non possiamo vedere contenuti cinesi come loro non possono vedere i nostri e per quanto riguarda i dati essi sono protetti alla stessa maniera di Google, Facebook o Meta se volete, Instagram.

Dunque, perché proibirne l’uso: forse perché non c’è reciprocità con la Cina e cioè You Tube e le altre piattaforme non hanno agibilità perché Pechino non autorizza? Comunque sia senza saper né leggere né scrivere in uno slancio di solidarietà con le decisioni americane anche l’UE ha deciso di proibire TikTok ad i suoi dipendenti governativi, seguita da Canada, Francia ed il 10 Marzo dal Belgio che ha obbligato i propri dipendenti federali a disinstallare la piattaforma. Noi ci accodiamo sempre un po’ in ritardo ma aspettatevi qualche cosa di simile anche per i nostri statali.

Insomma, i custodi del Diritto Internazionale possono dormire sonni tranquilli: nulla di nuovo dal fronte occidentale, pardon orientale. Tutto continuerà così per un bel po’ e tutti continueremo a pagare le conseguenze di questa strana politica a cui non farebbe male un sano bagno di realismo ed onestà intellettuale.

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