I padri che “rubano” il lavoro ai figli.

di Giovanni Maria Bellu. La notizia non è nuovissima. E’ la conferma di una tendenza già rilevata nei mesi scorsi. Ma questa volta è stata segnalata con una certa enfasi, forse per mettere un po’ di pepe sul consueto aggiornamento dei dati dell’Istat sull’occupazione. Che lo scorso agosto è aumentata di un piccolo 0,1 per cento, 13mila persone in più in tutt’Italia. Uno spostamento modestissimo. L’aspetto interessante – quello che è stato messo in rilievo nelle cronache – è che a il tasso di occupazione è aumentato in modo più consistente tra gli over 50 anni.
Era già successo nell’ultimo trimestre: nel periodo giugno-agosto, sottolinea l’Istat, “il tasso di occupazione aumenta in tutte le classi di età ad eccezione dei 15-24enni (-0,4 punti percentuali)” e “la crescita è più alta tra gli over 50 (+0,5 punti)”. La ragione del fenomeno è in parte spiegata dalla riforma del sistema pensionistico (un certo numero di lavoratori ultrasessantenni ha dovuto rinviare il pensionamento e, nel frattempo, un certo numero di loro colleghi ha superato i 50 anni), in parte da altre complesse dinamiche interne al mercato del lavoro. Anche in questo caso i numeri dell’Istat si prestano a svariate letture e interpretazioni. Ma che aumenti il numero dei lavoratori maturi e resti al palo (e anzi un po’ diminuisca) quello dei giovani lavoratori, è un fatto di straordinaria forza simbolica. Suona come una metafora del tempo che viviamo. Tradotto in parole povere, il dato dell’Istat ci dice che ci sono un po’ di padri che “rubano” qualche posto di lavoro ai figli. Rubano il posto dopo avere rubato – certo, non loro individualmente, ma la loro generazione – il futuro. Proviamo a trasferire questo dato statistico a una situazione della vita reale. Al netto degli automatismi determinati dalla riforma delle pensioni, abbiamo un certo numero di casi di ultracinquantenni che dopo aver perso il posto di lavoro (per il fallimento o la ristrutturazione dell’azienda, per un taglio del personale) riescono a trovarne uno nuovo. Impresa straordinaria se si considera che il cinquantenne che riesce oggi a trovare una nuova occupazione, quando era giovane e cominciò ad annusare il mondo del lavoro non aveva la minima idea di potersi trovare in una situazione del genere. Se definiamo “cinquantenne” chi ha superato i 50 e non ha ancora raggiunto i 60 anni, stiamo parlando di quanti avevano la stessa età dei ragazzi disoccupati di oggi tra la seconda metà degli Settanta e la seconda metà degli anni Ottanta. Cioè quando l’Italia stava creando il debito che oggi pesa sulle spalle di tutti. Solo che i ragazzi di allora – i cinquantenni di oggi – hanno potuto beneficiare della creazione di quel debito. Proprio per questo sono rimasti molto sorpresi quando hanno scoperto all’improvviso, sulla loro pelle, che quel giocattolo si era rotto. E si sono trovati sulla strada. Alcuni di loro non ce l’hanno fatta e – come ci hanno raccontato le cronache di questi ultimi anni – sono arrivati a togliersi la vita. I ragazzi di oggi – che poi sono i figli di quei ragazzi di allora – si trovano subito, all’inizio della loro vita lavorativa, davanti a questa realtà. Il cinquantenne ha trovato un nuovo lavoro che lo traghetterà fino alla pensione. Suo figlio deve ancora cominciare a lavorare. E più cresce il tempo dell’attesa più diminuisce la speranza di arrivare ad avere un giorno una pensione dignitosa. Abbiamo parlato di “padri e figli” per individuare le diverse generazioni. Ma è possibile che dentro i numeri dell’Istat ci sia qualche caso in cui veramente, all’interno della stessa casa, nell’ambito della stessa famiglia, un padre e un figlio si sono trovati a concorrere per lo stesso posto e che alla fine abbia “vinto” il padre. Per esempio perché l’azienda ha preferito assumere un dipendente già professionalmente formato, e sicuramente “a termine” per ragioni anagrafiche, anziché un giovane magari dotatissimo e plurispecializzato ma, proprio per questo, molto più impegnativo. L’aspetto drammatico di un caso del genere, è che il figlio perdente, può arrivare alla conclusione che, dal punto di vista pratico, il reinserimento del padre nel mondo del lavoro è il risultato migliore. Perché se il padre arriverà alla pensione, entrerà in famiglia un reddito certo. Lo stesso che negli ultimi anni è stato garantito dal nonno, che purtroppo non è eterno. Un meccanismo perverso che getta una luce di cupa rassegnazione sul cosiddetto welfare familiare. Al furto del futuro si somma quello della speranza di prendere in mano la propria vita.

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