Prima di modificare il ‘carcere duro’ incominciamo col ‘carcere normale’.

di Pier Giorgio Tomatis. L’articolo 41-bis dell’Ordinamento penitenziario italiano è comunemente conosciuto con la formula lessicale “carcere duro”.
Essa ha numerosi ambiti di applicazione che vanno dal terrorismo, all’eversione, dai reati per mafia alla riduzione in schiavitù o in servitù, dall’induzione alla prostituzione minorile alla tratta di persone o acquisto e alienazione di schiavi, dalla violenza sessuale di gruppo al sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione, dall’associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi al traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope. Le strutture italiane attrezzate che possono sostenere il carcere duro sono 23. Se si può pensare dall’uso improprio dei vocaboli del nostro dizionario che tale strumento preveda “lavori forzati” o altre coercizioni fisiche sui detenuti si rischia di rimanere delusi. La durezza della detenzione è concentrata sui contatti umani dei carcerati all’interno e all’esterno. L’isolamento è la misura che è prevista dal famigerato articolo. Lo strumento che lo Stato ha posto in essere per fronteggiare gravissimi reati è proprio questo. Il detenuto è isolato dagli altri carcerati (la cella è singola e l’accesso agli spazi comuni del carcere è limitato se non assente), anche durante l’ora d’aria, è costantemente sorvegliato da un reparto speciale del corpo di polizia penitenziaria (anch’esso isolato rispetto agli altri poliziotti), i colloqui con i familiari e gli avvocati sono limitati e protetti, come anche le telefonate, la posta è censurata ed è fatto divieto di tenere in cella oggetti di uso comune come le penne, i quaderni, il denaro, ecc. Con il regime carcerario duro, lo Stato non cerca di recuperare il soggetto recluso ma vuole fortissimamente difendere se stesso e la Società che rappresenta da esso. Non assisteremo, quindi, a fughe dal carcere durante un permesso premio o copule tra coniugi con la tolleranza dei guardiani e né tanto meno a una conversione del detenuto. Lo Stato si è arreso alla volontà stessa del criminale che (laddove la Giustizia lo ritiene opportuno) ha manifestato chiaramente l’intenzione di continuare a perpetrare i gravi reati già descritti ogniqualvolta abbia occasione di farlo. Il regime del 41-bis non educa il detenuto a riconoscere i propri errori e a cambiare vita ma anche il carcere cosiddetto “normale” non ottiene troppi lusinghieri risultati. Per migliaia di ragioni. Non sono favorevole a una modifica dell’articolo 41-bis ma se proprio si sente il bisogno di metter mano al carcere duro ritengo che ciò debba far parte di una riforma più ampia che parta, a esempio, da una giusta condanna (oltre ogni ragionevole dubbio) e continui con la ristrutturazione delle carceri e della vita al loro interno. Come a dire: prima di toccare il “carcere duro” incominciamo col carcere…

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