Politiche dei partiti per l’imprenditoria giovanile VS politiche di Airbnb.

di Davide Burchiellaro. Lo so che il titolo è un po’ estremo. Però vi invito a fare due semplici esercizi.

Esercizio uno: prendete questa iniziativa del colosso delle vacanze dedicato alla Smart Community: si chiama Fondo WOW e non ci sto scrivendo una marchetta perché è scaduto ieri 31 luglio.

In sintesi: Airbnb, che tra i big della Sharing Economy è forse quello che ha sofferto di più durante la pandemia, ha stanziato 10 milioni di dollari per consentire ai propri iscritti di costruire alloggi creativi ed esperienziali. Nella pagina trovate esempi divertenti di vincitori delle scorse edizioni e quanti soldi hanno poi reso i progetti a chi li ha realizzati.

Uno a caso, quello che trovate nella foto: un alloggio ottenuto da un vecchio autobus retrò realizzato da un millennial di Leira, in Portogallo. Il Fondo lo ha finanziato per circa 36mila euro. Nei due anni di attività, pur in piena pandemia, l’alloggio ha reso al titolare 50.159 dollari.

Esercizio due: prendete le agende dei partiti italiani (tutti i partiti italiani) relative alle politiche per il lavoro ai giovani. Togliete il reddito di cittadinanza, che rende l’esercizio troppo facile. Ebbene, credo non sia necessario andare oltre.

Vale la pena soltanto chiedersi se la burocrazia italiana, prima ancora che le banche, avrebbe potuto permettere ai nostri ragazzi di esprimere imprenditorialmente quella che è la risorsa giovanile per eccellenza: la creatività. Come ha fatto e fa Airbnb.

Perdonate la scarsa scientificità del paragone, ma siamo in piena campagna elettorale e ne sentiamo di ben più astrusi, no?

Non nutro grande fiducia nella politica italiana. Inoltre mi annoia. Non vado fiero di questo atteggiamento perché se le cose non funzionano, invece di annoiarsi si dovrebbe fare qualcosa. Il fatto è che anche nella comunicazione politica l’attenzione del pubblico si ottiene ormai seguendo le linee guida dei social network: o con la polemica furiosa, o con i contenuti trash. E non mi appartiene nessuna delle due modalità, perché credo che bypassino intelligenza e dialogo.

Anche verso i big tech e la retorica della Sharing Economy non nutro grande simpatia: credo che spesso tendano a favorire i lavori precari e che sfruttino vantaggi fiscali deprecabili, perché i proventi del business non rimangono in Italia.

Quello che penso io, però è ben poco importante. Il fatto più eclatante è che questo atteggiamento di indifferenza verso politiche mirate alle generazioni più giovani è una delle spiegazioni della fuga all’estero dei venti/trentenni. Una fuga irreversibile, nonostante quello che si è detto a vanvera, per esempio, dopo la Brexit.

Ci si attendevano treni carichi di millennial che tornavano con la lacrimuccia e la nostalgia di Albano e Sanremo, come in un film di Checco Zalone.

Non è accaduto e so per certo che chi sta leggendo, nella stragrande maggioranza dei casi, ha ancora oggi conoscenti, figli o nipoti che non ci pensano proprio a tornare.

Il motivo, in fin dei conti è semplice: la distanza che si è creata tra crescere professionalmente in Italia o farlo all’estero è diventata la distanza tra l’impossibile e il possibile.

Pur essendo sottostimati, perché non tutti gli expat italiani si iscrivono automaticamente all’Aire (l’anagrafe dei residenti all’estero) dati di questo genere dovrebbero entrare di prepotenza in qualsiasi agenda politica: negli ultimi cinque anni, il 50 per cento degli italiani emigrati all’estero aveva meno di 40 anni. Mentre negli ultimi 20 anni secondo Eurostat sono aumentati del 227 per cento i neolaureati che hanno fatto le valigie.

Farsi qualche domanda no?

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