Alcune riflessioni su lavoro e reddito di cittadinanza.

di Gerardo Lisco. La battaglia a favore del reddito di cittadinanza, per non parlare dell’idea di salario universale che sembra prendere piede in termini di prospettiva tanto nel M5S quanto nel PD e nell’alleanza Verdi/Sinistra, prova una cosa molto semplice e cioè l’incapacità di mettere in campo una proposta politica che esca dagli schemi predefiniti del Liberalcapitalismo.

La questione non è creare un sistema alternativo, ma provare a costruire una proposta politica in grado di riformare il sistema secondo una prospettiva che potrebbe essere definita come “Democrazia sociale”.

Il reddito di cittadinanza è solo tatticismo, attraverso una battaglia campale a sua difesa si pensa in qualche modo di recuperare il consenso perso; ma il consenso perso è stato già recuperato per larga parte dalM5S durante una campagna elettorale centrato sul tema della difesa del Reddito di Cittadinanza ed ora il Pd a guida Schlein si accoda sperando in questo modo di costruire le condizioni per un’alleanza progressista in grado di competere con la destra. In sostanza una politica priva di visione, solo tatticismo funzionale al sistema liberalcapitalista.

Il reddito di cittadinanza non esprime una prospettiva politica e se si pensa che essa possa essere rappresentata dal reddito di base universale vuol dire che alla sinistra, e più in generale al campo “ progressista”, manca la capacità di comprendere la “fase” attuale e quindi la capacità di cogliere come i rapporti di forza tra élite e masse si stanno ridefinendo.

Se poi  Mark Zuckenberg, Elon Musk e altri esponenti del modo della finanza e dell’industria  si sono espressi a favore del reddito di base universale, personalmente più che compiacermi, mi preoccuperei e seriamente.

L’idea di fondo è che l’innovazione tecnologica finirà nell’arco di pochi anni con il sostituire milioni di lavoratori, i quali si troveranno ad essere disoccupati.

Di fronte ad una tale prospettiva, dal momento che si teme una contrazione dei consumi dovuta alla mancanza di domanda interna, il reddito di cittadinanza, oggi, e il reddito di base universale, come prospettiva, diventano l’obiettivo da perseguire.

Secondo una certa interpretazione del pensiero di Marx le innovazioni tecnologiche eliminando il lavoro dalla catena di produzione del valore, finalmente, permetterebbero di raggiungere l’obiettivo di liberare l’uomo permettendogli di dedicarsi a ciò che più lo soddisfa realizzando a pieno la propria individualità. Il lavoro, invece a mio parare, più che scomparire perderebbe il significato che lo ha contraddistinto nel corso della Storia.

Bisogna chiedersi se davvero la “fine del lavoro” sia qualcosa di Sinistra. Se si riconosce la necessità di surrogarlo, oggi con il reddito di cittadinanza e domani con il reddito universale, permettere la fine del lavoro potrebbe essere l’ennesimo abbaglio di una “sinistra” ingabbiata e incapace di uscire fuori da una narrazione che la rende sempre meno popolare in termini di consensi e la rinchiude in aree ormai marginali della società italiana: il PD nelle aree urbanizzate con una forte presenza di percettori di redditi medio alti e il M5S in aree caratterizzate da forme di povertà dovute anche alla presenza dello Stato che non è andata oltre l’assistenzialismo. I due gruppi sociali richiamati messi assieme non sono in grado di esprimere una maggioranza in termini di consenso elettorale.

La questione non è solo questa, è sul piano della cultura politica che il reddito universale assume risvolti a dir poco inquietanti creando le condizioni per il superamento della Democrazia in funzione di un sistema tecno feudale.

Il lavoro scomparirà sostituito dalla tecnologia?

Non penso. Il lavoro finirà sempre di più con l’essere definito secondo categorie culturali che stabiliranno cosa è da considerare lavoro e cosa no. In questa prospettiva il lavoro sarà sempre meno un’azione utile alla produzione dalla quale trarre valore e sempre di più un bene sul quale esercitare un diritto di proprietà. Il lavoro non più oggetto di scambio in un rapporto contrattuale sinallagmatico (prestazione lavorativa verso salario), prendendo in prestito un concetto giuridico medievale con la dovuta accortezza del caso, diventa una sorta di beneficium che definirà lo status sociale del titolare.

Agli altri, alle masse toccheranno le corvée  ossia prestazioni non classificabili come lavoro ma come controparte del salario base.

Quindi la fine del lavoro sarà una illusione che illuderà il percettore del salario base di poter vivere e di essere “libero” di godere del proprio tempo che invece spenderà per giustificare proprio la percezione del salario base.

Le corvée erano le prestazioni lavorative, di fatto tributi, che i sudditi erano obbligati a prestare al proprio signore per il fatto di godere della sua protezione, di poter coltivare un pezzo di terra, per il mantenimento di beni comuni quali stradi, ponti, le mura del castello ed altro ancora. Il lavoro si trasforma in bene posizionale, cioè in quel bene che definisce lo status sociale di chi lo possiede, per cui quanto più diventa un bene raro tanto più esso acquista valore ma non ne produce. In sostanza il lavoro finisce con l’essere assoggettato alla logica propria della teoria marginalista: Il grado di soddisfazione di un bene perde di intensità al suo crescere.

Per cui il lavoro se distribuito in modo eguale finisce con il perdere valore.

Tanto il reddito di cittadinanza quanto il reddito universale di base sono  quanto di più funzionale ci sia al sistema economico neoliberale, così come si è andato definendo dall’applicazione della teoria economica marginalista.

Nello specifico faccio riferimento, per tutta una serie di implicazione, alla Scuola economica di Vienna che ha in Carl Menger il fondatore, il quale è da annoverare tra i teorici del marginalismo. Da sottolineare che il marginalismo con il monetarismo sono le teorie economiche dominanti a livello mondiale.

Nell’immediato il reddito di cittadinanza offre un salario minimo a chi versa in condizioni di necessità, ma nel contempo è strettamente funzionale al sistema liberalcapitalista il quale ha tutto l’interesse da una parte ad avere consumatori dall’altra ad impiegare i soli fattori di produzioni utili a far crescere i profitti.

Il mantenimento di un “esercito industriale di riserva” consente al sistema liberalcapitalista il controllo delle masse, se poi all’esercito “industriale di riserva” venisse fornito un reddito minimo a carico della fiscalità generale, trasformandolo anche in esercito di consumatori, non è da escludere che il livello di profitto per i capitalisti potrebbe essere addirittura maggiore rispetto alla piena occupazione del fattore lavoro.

Il reddito universale di base apre scenari inquietanti perché si creerebbero le condizioni  per il superamento stesso della Democrazia in un sistema politico che vedrebbe elementi propri di un sistema feudale  combinarsi con la tecnocrazia.

Le ragioni sono da ricercare nel fatto che il lavoro in quanto beneficium è il fattore che distingue la classe egemone dalla massa. Il lavoro, in quanto bene che definisce lo status sociale,diventerà l’elemento legittimante  sul quale fondare l’esercizio del potere politico.

Questo è un modello che si differenza persino dal liberalismo del primo 800 quando l’esercizio del potere politico derivava dal censo. In quel caso il censo era determinato dalla ricchezza posseduta e dalla quantità di imposte pagate all’erario; non era il lavoro il bene che definiva lo status sociale di appartenenza ma la quantità di ricchezza immobiliare e il livello di rendita che ne derivava.

Per farsene un’idea è sufficiente soffermarsi a riflettere sulle opere letterarie dei grandi romanzieri  della prima metà del XIX secolo in particolare inglesi e francesi dove la “rendita”, della quale godevano i vari personaggi, era fondamentale ai fini della definizione del loro status.

Nel contesto attuale e ancora di più nei prossimi anni con la ricchezza che passa dall’essere materiale ad immateriale, lo status sociale diverrà sempre più importante ai fini dell’esercizio del potere politico e l’essere beneficiari di lavoro sarà l’elemento distintivo.

Allora quale potrebbe essere una prospettiva politica alternativa a politiche economiche liberalcapitaliste?

Se l’individualismo è l’elemento fondate del sistema economico e quindi politico odierno ad esso bisogna contrapporre la comunità.

Già Bauman aveva compreso che di fronte all’esasperazione individualista le masse reagivano con la “voglia di comunità”.

Oltre Bauman, sono C. Lasch e M. Lilla ad evidenziare, in modi differenti l’insofferenza da parte delle masse verso spinte disgregatrici che prendono la forma di rivendicazioni fortemente identitarie e minoritarie.

Bisogna chiedersi quale possa essere l’elemento unificante della “comunità”, il fattore in grado di dare un senso all’essere parte di una comunità. Non c’è dubbio che tale elemento possa essere il lavoro.

Non sono né il reddito di cittadinanza né, tanto meno, il reddito universale elementi presenti nel sistema liberalcapitalista in grado di innestare processi di conflittualità tali da avviare, per causa di forza maggiore, una stagione politica riformista al punto tale da fermare la deriva antidemocratica ed antisociale.

È la politica di piena occupazione l’unica in grado di tenere insieme la comunità, di operare nel senso di una reale redistribuzione della ricchezza prodotta mettendo tutti i lavoratori nelle condizioni di poter partecipare alla vita democratica del Paese.

Non ci sono politiche pubbliche in grado di sostenere attraverso forme di incentivi i consumi se gli incentivi sono a carico della fiscalità generale.

Un’operazione di questo tipo alimenta il conflitto tra gli ultimi e i penultimi non certamente tra capitale e lavoro. Le politiche di piena occupazione possono essere realizzate solo attraverso l’intervento pubblico, ossia lo Stato che si fa imprenditore utilizzando quei fattori di produzione che il mercato attraverso la libera intrapresa non ha interesse ad occupare.

Le risorse finanziarie pubbliche per la piena occupazione in un contesto come quello attuale possono essere prese  spendendo in deficit o facendo ricorso a tributi di scopo, come successe con il “Piano Casa”.

Il Piano non venne finanziato dall’indebitamento pubblico ma dagli stessi beneficiari. Quindi nulla a che vedere con politiche di tipo keynesiano.

Un intervento come quello non venne caricato sulla fiscalità generale ma attraverso un prelievo diretto sui lavoratori interessati. Quell’operazione diede un impulso non indifferente alla ripresa dell’economia italiana all’indomani del conflitto bellico. Operazioni come queste possono essere fatte solo in presenza di un forte senso  di appartenenza alla “comunità”. Il Reddito di cittadinanza, mettendo da parte l’idea del reddito universale di base; deve essere ricondotto a interventi finalizzati a combattere la povertà.

Ai lavoratori poveri bisogna garantire salari più alti e questo è possibile solo attraverso il potenziamento dei Contratti Collettivi Nazionali, l’eliminazione della miriade di contratti esistenti e la fine della precarizzazione del lavoro. Un progetto Comunitario fortifica la Democrazia e il ruolo delle istituzioni, perché stimola la partecipazione democratica.

Queste righe vogliono essere solo uno spunto per ulteriori riflessioni. I punti evidenziati richiedono un approfondimento non racchiudibile in questo spazio.

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