Lavori sempre, guadagni poco, vai in pensione tardi. Ma ti dicono che sei fortunato!

Ti svegli ogni mattina, affronti un lavoro che spesso ti chiede più di quanto restituisca. Torni a casa stanco, con lo sguardo già rivolto al prossimo stipendio che non basterà. Intanto, la televisione ti dice che dovresti sentirti fortunato, perché “almeno tu” un lavoro ce l’hai. Perché “ci sono tanti che stanno peggio”. Perché, nel racconto del mainstream, lamentarsi è quasi una colpa.
È qui che si annida il grande paradosso italiano: lavorare è diventato un privilegio, anche quando non garantisce più né benessere né futuro. Un tempo era un diritto, oggi è una concessione. E in questa narrazione rovesciata, chi lavora deve solo ringraziare. Anche se guadagna poco, anche se va in pensione a 67 anni, anche se l’asticella della pensione viene alzata sempre di più, di anno in anno fino ad arrivare a 70, anche se vive ogni giorno con l’ansia di perdere ciò che ha.
Ma no, non è normale. E accettarlo, come stiamo facendo, significa spegnere lentamente l’idea stessa di una società giusta.
I numeri parlano da soli.
Gli stipendi italiani sono fermi da vent’anni, mentre il costo della vita sale. In Germania e in Francia i salari sono cresciuti, anche a fatica, ma in Italia l’erosione del potere d’acquisto è ormai sistemica. Bollette, affitti, benzina, spesa: tutto costa di più, ma gli stipendi restano lì, bloccati nel passato. E intanto, la soglia pensionistica si allunga, fino a sfiorare limiti che non sono più umani, né sostenibili.
Eppure, nessuno si indigna. O meglio: non abbastanza. La rabbia cova sotto la cenere, ma non si trasforma in mobilitazione. Perché?
Perché nel frattempo è cambiato il modo stesso in cui il lavoro viene percepito. Non più fondamento della Repubblica, ma terreno fragile, instabile, competitivo. La precarietà è diventata normalità, il tempo indeterminato un sogno d’altri tempi, la rappresentanza sindacale è debole, il mondo del lavoro è frammentato. Chi lavora si arrangia. Chi può, emigra. Chi resta si sente solo, inascoltato, impotente. Ed è proprio questo isolamento che genera la forma più pericolosa di rassegnazione: quella silenziosa.
Nel frattempo, il mainstream tace. Anzi, rimuove. Non è un caso, ma una strategia. Parlare davvero di lavoro e di pensioni significherebbe mettere in discussione un intero modello economico e politico: quello che glorifica la flessibilità mentre svuota i contratti, che scarica i costi delle crisi sui lavoratori, che racconta la disuguaglianza come meritocrazia. Un sistema dove il lavoro serve a produrre ricchezza, ma non a distribuirla.
Il risultato è un Paese stanco, impoverito, spaventato. Una classe media che si assottiglia. Una gioventù che cerca futuro altrove. Un’Italia che si svuota, lentamente, senza che nessuno sembri preoccuparsene davvero.
E allora sì: serve una scossa. Serve una voce collettiva, un nuovo coraggio, una presa di coscienza. Non basta più accettare. Non basta più sopravvivere. Il lavoro deve tornare al centro del dibattito pubblico, delle agende politiche, della narrazione nazionale. Deve tornare a essere ciò che era: un diritto, un pilastro, un segno di dignità.
Perché se chi lavora non alza la testa, nessuno lo farà per lui.
E se il lavoro non garantisce più una vita degna e una vecchiaia serena, allora è la democrazia stessa a essere in pericolo.
È ora di rompere il silenzio.
È ora di riportare nel mainstream la verità più scomoda di tutte: che senza dignità del lavoro, non c’è futuro per nessuno.
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