di Giuseppe Aragno. Mentre siamo parte attiva in una guerra e in piazza si chiede la pace, è a dir poco singolare: dopo un secolo, la nostra Repubblica parlamentare, che ha tra i suoi principi fondamentali il ripudio della guerra, celebra ancora un conflitto nel quale ci trascinò a tradimento un re criminale con un patto segreto ignorato dal Parlamento.
Un conflitto feroce e insensato, un’infamia, universalmente nota come «inutile strage».
Se è vero che le parole non sono mai neutre e pesano come sassi, forse non c’è segnale più raccapricciante dello stato di coma profondo in cui versano le Istituzioni, che la parola utilizzata in netto contrasto col dettato costituzionale: celebrare vuol dire esaltare, glorificare, ricordare festosamente; una parola, quindi, che fa riferimento a un vanto, a un moto di orgoglio, a una lezione positiva da impartire ai giovani del nostro tempo.
Come facciamo a dimenticare i socialisti e gli anarchici mandati nelle missioni dove più certa era la morte? E i soldati uccisi dai carabinieri pronti a sparare a chi fuggiva terrorizzato? Perché si tace dei centomila nostri prigionieri considerati disertori e abbandonati a se stessi, in mano a un nemico che stentava ad alimentare i suoi uomini al fronte e uccisi dalla fame e dal freddo nei campi di prigionia? Perché non raccontiamo ai giovani l’inaudita ferocia delle nostre classi dirigenti?
«È un affare molto serio», scriveva un ufficiale da Berna; «bisogna, anzitutto premettere che i tedeschi, non avendo ormai più niente da mangiare, non possono dare maggiormente ai prigionieri. Questi disgraziati, se non sono ufficiali, sono costretti ad un lavoro di 12-14 ore al giorno, sono condannati ad una morte molto più certa che quando erano sul fronte. Creda che questa non è esagerazione. Ne ho visto e ne ho interrogato. So di un sergente il quale ha dato le sue scarpe nuovissime per qualche biscotto. Quello lì aveva potuto conservarsi le scarpe. Quasi tutti gli italiani sono stati spogliati ed hanno dovuto passare l’inverno senza scarpe e talvolta senza cappotto. Il numero dei disgraziati, i quali non vedranno mai più il sole di Italia sarà enorme. Bisogna dunque che la Patria assista i suoi prigionieri, […] che l’Italia faccia in ogni campo dove saranno internati sudditi italiani degli invii collettivi di biscotti e altri viveri, che vengono poi distribuiti dal Comitato scelto nei prigionieri, il quale deve essere costituito in ogni campo. Questo è l’unico rimedio perché: 1°) non si otterrà mai che la Germania dia da mangiare ai prigionieri poiché i tedeschi stessi crepano di fame. 2°) le autorità quando non favoriscono il furto, chiuderanno sempre gli occhi sulla disparizione dei pacchi postali individuali».
Generali e politici non ascoltarono e si sa bene il perché: più affamati e disperati erano i prigionieri, più se ne condannavano a morte, più si scoraggiava la diserzione dei combattenti. Un nome di questa scelta disumana, fu fermata la Croce Rossa e tutto fu coperto da una propaganda nazionalista così ben orchestrata, da rendere ciechi persino i genitori dei nostri infelici soldati.
Prigioniero a Theresienstadt in Boemia, così il 5 agosto 1916 un soldato scriveva al padre:
«Non mi degno più chiamarvi caro padre avendo ricevuto la vostra lettera oggi dove lessi che era meglio fossi morto in guerra, e che ho disonorato voi e tutta la famiglia. Tutti parlano male di me. Perché capisco che non sentite più l’amor filiale, non sentite altro che l’amor patrio e pel vostro Re. Perciò d’ora in poi sarò il vostro più grande nemico, e non più il vostro Domenico. Vi ringrazio di tutto cuore, ma non mandatemi più nulla. Addio. Sapete che a scrivere non so tanto; ma sono mie parole lo stesso».
Pochi mesi dopo, da Mauthausen, un altro prigioniero scriveva alla mamma:
Anziché rinunciare la mia patria desidero anche ingiustamente soffrire la condanna. […] State tranquilla mamma perché vostro figlio non vi ha disonorato».
Per gli infelici proletari prigionieri, non si trattava solo di difendere la dignità e la vita, ma di fare i conti con terribili sensi di colpa: essi sapevano infatti, che la resa al nemico, benché inevitabile, era ricaduta sulle famiglie, già private delle loro braccia. «ti hanno levato il sussidio», scriveva al padre un contadino pugliese il 16 febbraio del 1918, ma «sono grandi vigliacchi perché io quando fui fatto prigioniero fu colpa del mio tenente e non è colpa mia, e poi noi fummo fatti prigionieri in 32 soldati e caporali e 2 sottotenenti come fanno a dire che io sono disertore?».
Lettere mai giunte ai familiari e per fortuna conservate in archivio. Lo sanno in molti: celebrare la guerra non è una scelta nobile. Celebrare questa guerra, con 100.000 omicidi di Stato su 600.000 caduti, è un’autentica vergogna.
* Giovanna Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella grande guerra, Editori Riuniti, Roma, 1993.
Fonte: https://giuseppearagno.wordpress.com/2022/11/05/centomila-omicidi-di-stato/