Caro Guccini, ai tempi di Napoleone il Mose, l’avrebbero fatto in un anno, a dire tanto!

di Maurizio Guandalini. “Venezia è anche un sogno, di quelli che puoi comperare, però non ti puoi risvegliare con l’acqua alla gola, e un dolore a livello del mare”.

Caro Guccini,  ai tempi di Napoleone, il Mose, l’avrebbero fatto in un anno, a dir tanto. Pensate a quando è stato realizzato il canale di Suez, o le bonifiche nei nostri territori. Possibile che con le tecnologie di oggi i lavori pubblici procedano a ritmo di lumaca? Siamo tornati al Medioevo (a san Tommaso, per intenderci), con la differenza che allora c’era una borghesia urbana in grado di reagire (seguì, infatti, il Rinascimento).

La prospettiva è la decrescita infelice. Inerzia. Estensori di comunicati ufficiali.
Dire che non si sapeva come sarebbe andata a finire è una panzana picchiatella. Ieri commentavamo, qui, l’assurdità delle lungaggini del Mose che poteva riparare dai danni la laguna.  Succedono i disastri. Aiuto, aiuto. Politici seduti nei talk invece di lavorare. Fare, faremo. Si ricade nel pantano. Finora l’unico slancio degno di nota è il nuovo ponte di Genova. Perché si è centralizzato le decisioni e sfoltito le pratiche. La regola. Ferrea. Per non vedere gli spettacoli indecorosi della gente nei container con la muffa, nei paesi del terremoto. Vanno, salutano, le alte cariche, precisi, senza sgarrare, ma che spostino di un millimetro l’ordine dei lavori, rendendoli rapidi, è una mesta illusione.

A Venezia il Governo ha inviato gli ispettori dei Beni Culturali invece del Genio Militare e della Protezione Civile. Giorni prima della piena.  Non si risolve alcunché, in un paese che cade a pezzi, senza leggi speciali. Eccezionali. La protezione civile va riscritta, potenziata, con super poteri che si coordinano direttamente con i ministeri di Infrastrutture e Difesa. Responsabili leader, visibili che se sbagliano, non rispettano i tempi si segano senza pietà. La vigilanza spetta al Parlamento. A una commissione permanente h24 che dispone e provvede. Non possiamo più permetterci la retorica dei giorni tristi, dispensatori di lune nere ovunque.

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VENEZIA. di Francesco Guccini

Venezia che muore, Venezia appoggiata sul mare,
la dolce ossessione degli ultimi suoi giorni tristi, Venezia, la vende ai turisti,
che cercano in mezzo alla gente l’ Europa o l’ Oriente,
che guardano alzarsi alla sera il fumo – o la rabbia – di Porto Marghera…
Stefania era bella, Stefania non stava mai male,
è morta di parto gridando in un letto sudato d’ un grande ospedale;
aveva vent’ anni, un marito, e l’ anello nel dito:
mi han detto confusi i parenti che quasi il respiro inciampava nei denti…
Venezia è un’ albergo, San Marco è senz’ altro anche il nome di una pizzeria,
la gondola costa, la gondola è solo un bel giro di giostra.
Stefania d’ estate giocava con me nelle vuote domeniche d’ ozio.
Mia madre parlava, sua madre vendeva Venezia in negozio.
Venezia è anche un sogno, di quelli che puoi comperare,
però non ti puoi risvegliare con l’ acqua alla gola, e un dolore a livello del mare:
il Doge ha cambiato di casa e per mille finestre
c’è solo il vagito di un bimbo che è nato, c’è solo la sirena di Mestre…
Stefania affondando, Stefania ha lasciato qualcosa:
Novella Duemila e una rosa sul suo comodino, Stefania ha lasciato un bambino.
Non so se ai parenti gli ha fatto davvero del male
vederla morire ammazzata, morire da sola, in un grande ospedale…
Venezia è un imbroglio che riempie la testa soltanto di fatalità:
del resto del mondo non sai più una sega, Venezia è la gente che se ne frega!
Stefania è un bambino, comprare o smerciare Venezia sarà il suo destino:
può darsi che un giorno saremo contenti di esserne solo lontani parenti…
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