Voucher, ma che governo è quello che ha paura delle sue riforme?

di Elena de Giorgio. Poiché il governo Gentiloni vive nell’incubo di quello che l’ha preceduto, ovverosia perdere un altro referendum, quello sul Jobs Act, dopo quello costituzionale, gli eredi del renzismo hanno pensato bene di sminare il terreno arato dalla Cgil per la nuova consultazione popolare sul lavoro grazie al sistema più vecchio del mondo: il passo del gambero.
Come un gambero che cammina all’indietro, dunque, la commissione lavoro ha annunciato per bocca della piddina Maestri che sui voucher, i buoni lavoro, indietro si torna. Da qui il voto: non per regolamentarli ma per abrogarli del tutto, almeno finché si corrono dei rischi politici. Insomma, il Pd non vuole stuzzicare il can che dorme, dopo che Renzi i sindacati aveva detto di volerli rottamare.
Il messaggio è chiaro: compagni, il Jobs Act lo smontiamo un pezzo per volta se no a smontarci sarà la Cgil con il referendum.
Ma solo una forza politica e un governo ancora prigionieri di una politica economica tipica della sinistra vecchio stampo, come il Pd, quella sinistra che il lavoro lo ha sempre complicato e irregimentato, invece di liberarlo, poteva riuscire nel capolavoro di azzerare completamente i voucher, anche per le famiglie, anche per le piccolissime imprese, insomma cancellarli con un colpo di spugna, dopo che negli anni scorsi il ministro del lavoro Poletti li aveva prima difesi a spada tratta per poi fare i primi segni di cedimento nell’ottobre scorso parlando di una regolamentazione del sistema.
A quanto pare però da oggi l’unico voucher buono è quello morto. Ma che governo è quello che prima fa una riforma, il Jobs Act, strombazzandola ai quattro venti come il non plus ultra dell’ammodernamento del mercato del lavoro, e poi, temendo di prendere un altro schiaffone come quello dato dagli italiani a Renzi sulla costituzione, fa retromarcia impaurito dalla Cgil?
Così, il presidente della commissione lavoro alla Camera, Cesare Damiano, sancisce l’ennesimo affossamento delle Grandi Riforme renziane. E lo fa con il fondamentale voto dei 5 stelle, che dopo aver tanto strillato chiedendo le elezioni, firmano così la sopravvivenza del governo. Non si può che rimpiangere il coraggio di chi, nella prima repubblica, difendeva le proprie scelte di governo fino in fondo: vedi il referendum (anche allora di iniziativa sindacale), che era dato per perso e invece fu vinto, contro la scala mobile.
Renzi, che al Lingotto ha cercato di riprendere il tono e lo stile del leader senza paura, si nasconde dietro il tenero Gentiloni e evita accuratamente di difendere le proprie riforme. Persino il presidente di Confindustria, che fin qui si è appiattito in tutto e per tutto su Renzi, fa sentire la sua voce, chiara benché fievole: “Meglio affrontare il referendum”. Invece no: meglio scavalcare la sinistra a sinistra, copiare l’emendamento Airaudo (identico a quello Maestri, tranne che per la data di rottamazione dei voucher, a cui Maestri ha dato 6 mesi di vita in più) e farla franca.

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