Ticket sanitario direttamente proporzionale al reddito.

di Pier Giorgio Tomatis. La spesa sanitaria, nel nostro Paese, è la voce di uscita più cospicua per le casse delle Regioni. In base alla devolution e al cosiddetto federalismo fiscale, lo Stato presenta in bilancio una spesa sanitaria assai bassa (rispetto a quella reale) che da vita a mostruosità economiche già conosciute da tempo e condannate unanimemente (anche se nessuno le ha ancora modificate di una virgola) come ad esempio la differenza sostanziosa tra il prezzo di acquisto di una siringa tra Lombardia e Sicilia. Tuttavia, quando c’è bisogno di tirar su quattrini (e il nostro Fisco è leader internazionale per capacità vessatorie) metter mano alle spese sanitarie è sempre una ghiotta occasione per far cassa, o aumentando i costi per il contribuente, o diminuendo, o peggiorando il servizio. A mio parere (ma rimane un sogno) una riforma del settore che possa essere indolore deve passare attraverso una tassazione differente da quella attuale. Oggi la spesa sanitaria ha due grossi capisaldi: le esenzioni (per le categorie meno abbienti) e i ticket. Il paradosso è che non vi è alcuna distinzione di ceto per chi utilizza quest’ultima forma e secondo me è un concreto sbaglio. Ipotizziamo che la spesa per i ticket (dei medicinali o delle spese per i servizi medici) venga ripartita in base a quanto guadagniamo realizzeremmo una piccola riforma etica e rispettosa dei principi costituzionali, in primis che bisogna contribuire al mantenimento dello Stato in base alle nostre possibilità economiche. Chi ha maggior denaro pagherebbe di più di chi ne ha meno. Il principio è più equo di quanto si possa pensare in quanto farebbe riferimento alla capacità di privarsi di ciò che è superfluo e che non concorre a intaccare i suoi bisogni fondamentali. Un cittadino che è ricco non si trasformerebbe in povero se gli aumentiamo le spese sanitarie (anzi, oggi lo Stato gli rifonde buona parte di quelle private che usa abitualmente) mentre per tanti altri che sono vicino alla soglia di povertà potrebbe essere un primo inizio di svolta. Si tratta solo di avere la volontà di operare una riforma popolare (cioè rivolta a quella maggioranza silenziosa che viene sempre e costantemente defraudata dei propri diritti). La crisi e la mancanza di risorse non è e non deve essere la scusa per aumentare i privilegi ai soliti noti e peggiorare le condizioni di vita di tutti gli altri.

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