Quei “malestanti” che ormai nessuno vuole più difendere.

di Vittorio Macioce. C’è un fantasma che si aggira per l’Europa: il malestante.

Chi è? È uno che fino a dieci anni fa si poteva tranquillamente definire benestante e ora guarda da vicino la soglia di povertà, senza speranze, senza intravedere un futuro, smarrito, preoccupato, con l’angoscia desolata nella testa e nel cuore, con un rancore e una rabbia che non trova dimora.

Rassegnato, ma con la voglia di sfogarsi e bestemmiare contro tutte le divinità, contro il prossimo, contro qualsiasi potere imbalsamato nei suoi privilegi e contro le chiacchiere sul sesso degli angeli. È l’ultima incarnazione della caduta del ceto medio, quello che resta della borghesia.

È lui il protagonista di questi anni ’10 che stanno ormai per arrivare al capolinea. È la maschera spaesata di una lunga e grigia crisi economica, che qui in Italia sembra non avere avuto neppure il sollievo di un raggio di sole.

Si è passati da una recessione all’altra senza mai vedere una ripresa. Il malestante ricorda Ethan Hawley, il personaggio principale dell’ultimo romanzo di John Steinbeck, L’inverno del nostro scontento, citazione presa in prestito dal Riccardo III di Shakespeare, ma che racconta la caduta di un signore di mezz’età che si ritrova a lavorare come commesso nel negozio di cui era proprietario. Solo che lo sgomento del malestante di questo tempo è ancora maggiore, perché magari non ha neppure le certezze del commesso. È senza bussola o sestante, spaventato dalle burrasche di chi naviga in mare aperto.

È il cinquantenne funzionario di azienda che ha perso il lavoro e si ritrova davanti il deserto di posti di lavoro sottodimensionati rispetto alla propria esperienza. Li accetterebbe volentieri, a stipendi molto più bassi, ma la risposta che riceve un «davvero, non è il caso», detto con tanta stima e comprensione.

È chi si è ritrovato nella fascia di mezzo di tutti quei mestieri un tempo definiti borghesi, le famose professioni liberali, che vanno dall’avvocato all’insegnante.

È il commerciante che per una vita è riuscito a vivere con dignità e ora non c’è proprio più nulla da fare, perché non riesce a pagare in tempo le tasse e la montagna debiti con le banche e può solo patteggiare con Equitalia e poi chiudere bottega e accettare l’onta del fallimento. Sono quelli che hanno vissuto per anni in purgatorio e ora preferiscono sprofondare all’inferno, piuttosto che sperare in un paradiso che non c’è.

Sono gli artigiani che non hanno trasmesso il mestiere ai figli e i figli che solo adesso si sono resi conto che era meglio fare il mestiere del padre.

Sono i figli ultratrentenni di genitori in pensione che campano di lavoretti precari e si vergognano ogni volta che sono costretti a strappare il pane dalla bocca del padre e della madre. Anche loro sono stati bimbi e adolescenti benestanti. Ora sono sottoproletariato.

Sono tutti quelli che hanno comprato casa con il mutuo e hanno smesso di pagarlo e ora aspettano che qualcuno, ricco e sciacallo, se la prenda all’asta.

Non stiamo parlando solo di gente che ha perso il lavoro, ma di chi lavora con stipendi sempre più bassi e risicati.

È il male di questo maledetto Paese dove il costo del lavoro è troppo alto e quello che ti resta in tasca sempre più misero. Al centro di questa forbice, di questo cuneo, ci sono le tasse. I malestanti muoiono di tasse, soprattutto perché sono di solito persone oneste e le pagano.

Negli ultimi dieci anni, secondo la European Trade Union Confederation, gli stipendi italiani sono scesi in media del 2 per cento, in Germania sono aumentati del 7.

Interessante quello che accade per i dipendenti pubblici: i professori hanno perso in media 800 euro, i magistrati ne hanno guadagnati 11mila.

Il malestante vive circondato dalla paura, e si fa a gara per renderlo ancora più preoccupato. I suoi guai non sono al centro delle piazze politiche, ma il suo voto sarà decisivo per le prossime elezioni europee. È lui l’arbitro e giocherà a testa o croce. Chissà se voterà con il cervello o con la pancia.

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