Covid19. Proprio adesso che stavamo cercando di uscire dalla “capanna”.

di Clemente Luciano. Ed ora, che con l’aumento dei contagi si ritorna a parlare di nuovi lockdown, ti cadono addosso nuove angosce, legate al ricordo delle angosce già vissute nel primo lockdown, quel “male di vivere” dell’altra chiusura di spazi, di tempo e di vita.

In quel tempo,prima del primo lockdown,si era ancora inconsapevoli di quello che stava per succedere.In quei giorni s’era tutti sui balconi e alle finestre e si cantava “Azzurro” di Celentano o “Nel cielo dipinto di blu” di Modugno e l’Inno di Mameli.Fuori i balconi e le finestre mettevamo striscioni con disegni di cieli azzurri e arcobaleni colorati con la scritta “andrà tutto bene” e “insieme ce la faremo”.Lo si faceva con un sentimento di empatia nazionale,come per esorcizzare,come per dirci che anche stavolta,come tante altre volte,in un modo o nell’altro ce la faremo.

Ma presto cominciammo a capire che questa volta era diverso,che non c’era proprio niente da cantare,e che quella “cosa” era una cosa maledettamente seria.Lo capimmo quando a “quella” solita ora,alle 18,nelle conferenze stampa della Protezione Civile conoscemmo quegli incredibili,tragici,numeri.E lo capimmo quando tv e giornali ci facevano vedere e ci raccontavano dei reparti ospedalieri e delle terapie intensive strapiene di malati.E ancor di più lo capimmo quando venimmo a sapere della tante morti solitarie,della gente morta sola nelle corsie d’ospedale,senza nessuno accanto e poi sepolta senza nemmeno un funerale,senza poter essere nemmeno accompagnata da un familiare al camposanto.

All’inizio fu in Lombardia e fu in Veneto,ma poi l’angoscia e la paura crebbero in tutta Italia.E ci furono le “zone rosse” e ci fu il “lockdown” nazionale.Tutti in casa per 3 mesi.Fabbriche e università e scuole e cinema e stadi e negozi e alberghi chiusi e le città sprofondate in un cupo,drammatico,irreale silenzio.E mamme e papà e ragazzi da casa,seduti davanti al computer,collegati all’ufficio o alla scuola o all’Università in modalità “smart working” o in “D.A.D.”,orribile acronimo che sta per didattica a distanza.

Venne poi maggio e i portoni delle Chiese cominciarono a riaprirsi e le saracinesche di bar e ristoranti cominciarono faticosamente a rialzarsi e la gente tornava ad uscire di casa,con quel nuovo modo di vita,con mascherina e “distanziamento”.Nei tanti talk show televisivi si diceva che poi questa vita “costretta” poteva diventare una opportunità per cambiare.Ma davvero è andata così?Davvero le nostre vite sono tornate,non dico eguali a prima,ma almeno,a dir così,diversamente “positive”?Da alcuni studi si è rilevato che oggi la risposta a chi,per esempio, ci chiedesse,così,semplicemente:”Hai voglia di uscire stasera?”sarebbe,quasi sicuramente:”no,scusami,non mi va,forse,magari domani”.

Risposte come questa,in questo tempo di post lockdown, sembrano far emergere interni dilemmi psicologici,angosce e incertezze esistenziali.Molti studiosi descrivono questi stati psicologici come la “sindrome della capanna” ,cioè la paura di uscire di casa,il timore di non esser pronti ad affrontare la nuova realtà,di non sentirsi al sicuro e non solo per la presenza del virus.L’aver trascorso tante settimane in isolamento ha forse abituato la nostra mente ad un senso di protezione che solo le mura di casa ci sanno dare.

Adesso,affacciandoci alle finestre della nostra vita,e guardando fuori la vita di adesso,ci accorgiamo che c’è tutto un mucchio di cose là fuori,che non hanno le stesse forme di “prima”,o che hanno un posto diverso da quello di “prima”.Certo,per i giovani è diverso:loro hanno fame di futuro e vanno a cercar vita nella “movida” e nelle discoteche.Ma in genere c’è poca voglia di andare in giro,anche solo a guardar vetrine,e se cinema e teatri fossero pure aperti,forse faremmo come Catone l’Uticense,che “andava a teatro per subito andarsene”.

Non abbiamo ancora elaborato e metabolizzato quello che è accaduto,che ancora sta accadendo.Quella questione di metri e mascherine,è un qualcosa che lascerà per sempre un segno dentro di noi.Ripensando ad alcuni momenti del lockdown,continuiamo ad avvertire un disagio intimo e profondo.Camminare adesso per le strade o le piazze,pensare a come erano nel “lockdown”:deserte e silenziose,come in un quadro di De Chirico(“Mistero e malinconia di una strada” è proprio il titolo di uno dei suoi più famosi dipinti).Ricordare mentalmente quel senso di isolamento,di disorientamento,di emergenza,fisica ed esistenziale,che abbiamo vissuto,che ci fa riflettere sul significato del tempo,di un drammatico passato,di un incerto presente.Ci sale da dentro la voglia magari,chissà,di andare via,in un qualunque “altrove”,alla ricerca della normalità perduta.Come se poi altrove,in qualsiasi altra parte del mondo una normalità ci sia o ci sia stata.

C’è il disagio e l’insicurezza di stare in mezzo alla gente.La diffidenza e il sospetto verso l’altro:per il tizio senza mascherina;per la signora che sta a meno di un metro da me;perfino per l’amico che ci vuole salutare:”scusa sai,la mano ce la daremo un’altra volta”.

E poi ci sono “loro”,ci sono i bambini.”Loro”,hanno visto stravolta la loro piccola quotidianità.Nelle loro piccole esistenze ha fatto irruzione la paura:la paura per quella malattia di cui tutti i tg parlavano;la paura per quel virus che si portava via i nonni.Ma anche la paura di non poter vedere i loro insegnanti e i loro compagni di scuola.Ai bambini,però,non è stato tolto “solo” un pezzo di Tempo.A loro sono stati tolti pezzi di vita:una passeggiata,l’abbraccio dei compagni,le giostre nei giardini pubblici,l’aria e il sole delle domeniche di prima primavera,la possibilità di stare in classe con i loro compagni,imparando a collaborare,a fidarsi degli altri,a sviluppare empatia.L’interruzione della scuola ha significato anche interruzione del processo di integrazione dei bambini di diversa nazionalità e di diversa abilità,arrecando così danni incalcolabili al futuro di queste generazioni e al futuro di questo Paese,già così povero di nuove nascite.

Ecco.La memoria di quel tempo e di quei giorni e la paura del ritorno di quella specie di vita,fa crescere dentro ognuno di noi nuove angosce ed oppressione.

Proprio adesso,proprio ora,che stavamo cercando di “uscire dalla capanna”.

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1 Response

  1. Giacomo-TO ha detto:

    “Adesso,affacciandoci alle finestre della nostra vita,e guardando fuori la vita di adesso,ci accorgiamo che c’è tutto un mucchio di cose là fuori,che non hanno le stesse forme di “prima”,o che hanno un posto diverso da quello di “prima…” E’ ormai evidente che il sistema al quale eravamo abituati, come la vita alla quale eravamo abituati è cambiata.
    Il COVID è un grande riformatore, che purtroppo uccide migliaia di persone.
    Non si dimentichi però che anche prima del COVID nel mondo ogni giorno: MIGLIAIA di PERSONE morivano (e muoiono di fame, malattie,..).
    Il Covid ha colpito anche l’Europa dove il tenore di vita è decisamente migliore di quello del 3° e 4° Mondo.

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