L’incognita individualista della GenerazioneZ cinese.

di Davide Burchiellaro. Ah che bello, dicono in molti, la Generazione Z ci salverà e salverà il pianeta. Loro sì che hanno le idee chiare e combattono contro gli errori dell’umanità. Mica vero. O meglio vero, ma solo in parte.

Il problema è il punto di osservazione. Se guardiamo i ragazzi crescere nelle nostre “sagge” democrazie occidentali, li vediamo pieni di buoni propositi, sensibili alle cause, determinati ogni venerdì a dimostrarci quanto le generazioni precedenti abbiano sbagliato. Ma se cambiamo visuale e ci spostiamo a Oriente, soprattutto in Cina, tutto cambia. E ci confrontiamo con dei GenZer altrettanto attivi ma non proprio a esprimere i nostri stessi valori. Anzi, mostrano segni marcati di individualismo, nazionalismo e determinazione a non perdere il benessere raggiunto dal loro Paese.

D’altronde uno dei pochi osservatori lucidi dei nostri media, Federico Rampini lo dice da tempo e lo ribadisce dall’uscita del suo Suicidio Occidentale, c’è una generazione di giovani cinesi che non sarà tenera con i nostri ragazzi.

La Generazione Z al momento conta due miliardi di persone nel mondo, ovvero il 25% della popolazione mondiale e presto diventerà la più grande coorte mondiale di consumatori. In Cina, però la Gen Z conta 270 milioni di ragazzi ed è benestante, scolarizzata e individualista. Che contributo darà al cambiamento globale?

La spinta nazionalista in Cina.

La Z è la prima generazione al mondo composta da nativi digitali e dedica il proprio tempo libero a socializzazione e shopping, al gaming e a farsi portare i pasti a casa. La visione del mondo negli Stati Uniti e in Occidente è liberal. Addirittura, secondo Jefferies la Gen Z è oggi «ancora più condizionata da politiche e idee progressiste rispetto ai millennial».

I temi sono quelli, ormai li conosciamo: lotta al cambiamento climatico, giustizia sociale, donne e diritti LGBTQ. Uno studio del 2021 della società EY ha confermato la tendenza: oltre l’80% della Generazione Z americana crede che il cambiamento climatico, il razzismo e la diffusione delle armi siano problemi significativi. Più di un terzo degli under 25 è andato in piazza a protestare, ha sostenuto un movimento politico o ha firmato una petizione online per qualche causa.

In Cina no. Al contrario, un crescente nazionalismo sta forgiando un’identità distintamente cinese. Molti giovani sono disposti a difendere lo Stato dall’accusa di essere autoritario.

Vorremmo poter credere alla storiella che tutto ciò avvenga perché le giovani generazioni non sono cresciute negli ultimi due decenni con Facebook , WhatsApp, Instagram e YouTube, che in Cina sono vietati. Ma i social network “sostituti” sono molto seguiti e il sistema offre risorse come il sito di blog Weibo, l’app di messaggistica e social WeChat e la piattaforma video Douyin, la sorella nazionale di TikTok.

È vero che su queste piattaforme i contenuti sono soggetti alla censura statale, ma sappiamo bene che in modo più sottile e meno invasivo anche i nostri social applicano una sorta di censura. Affermare che siano stati loro a generare l’ascesa del nazionalismo giovanile vuol dire dimenticare la causa più marxianamente lampante: il denaro.

Figli unici, più ricchi, più istruiti, più ambiziosi dei genitori.

La Cina ha investito molti soldi nell’educazione e oggi la sua Generazione Z è «più ricca, più istruita e più individualista dei genitori», scrive Jefferies. Inoltre un certo ruolo lo ha giocato anche la politica cinese del figlio unico: un buon 60% della Gen Z cinese è l’unico erede in famiglia. Da maggiorenni hanno vissuto il periodo di maggior crescita economica del Paese.

Ovviamente, quindi, spendono di più. La Gen Z cinese totalizza un 15% della spesa delle famiglie, rispetto al 4% della Gen Z negli Stati Uniti e nel Regno Unito. E le previsioni dicono che aumenterà fino ai 2,4 trilioni di dollari entro il 2035, (dati China Renaissance).

Eredità senza spartizioni.

La Generazione Z nel mondo è destinata a ereditare trilioni dai baby boomer e dalla Generazione Silente (quelli nati prima degli anni Cinquanta). Gli Z americani rastrelleranno 78 trilioni nei prossimi due decenni. Ma in Cina la Generazione Z ha meno probabilità di condividere l’eredità, notano quelli di Jefferies.

Tutti ricordiamo che cosa avvenne quando, qualche anno fa un famoso marchio di moda fu boicottato per una affermazione denigratoria sul popolo cinese su Instagram: danni per milioni di euro.

Questo orgoglio nazionale giovanile sta influenzando le abitudini di spesa dei cinesi. Si evitano i marchi stranieri e si segue la filosofia del guochao, ovvero quel made in China che sceglie i colori, il design e la storia tradizionale. Ciò costringe i brand stranieri a ripensarsi per andare incontro a quel mercato come ha detto a Fortune Denise Cheng, analista di una società di ricerche di mercato.

All’orizzonte, ecco la prima crisi che investirà gli under 25.

La grande paura dei Gen Zer cinesi, però, oggi riguarda disoccupazione, aumento dei prezzi delle case e rallentamento della crescita economica.

Se la pandemia ha ferito l’occupazione della Gen Z in tutto il mondo, in Cina i tassi di disoccupazione sono più elevati. Ogni anno si laureano decine di milioni di ragazzi, ma una percentuale significativa di loro non troverà un lavoro adeguato ai propri studi. Con una disoccupazione giovanile del 19,3%, rispetto all’8,1% degli Stati Uniti e al 7,8% della Corea del Sud, il terrore corre sulla Grande Muraglia.

A che cosa potrebbe essere disposta la Generazione Z cinese?

Il crollo del sogno del benessere economico dopo anni di crescita e ottimismo, unito al senso di unità inculcato dallo Stato potrebbe avere risvolti positivi o negativi: da alcuni segnali pare che gli under 25 stiano per uniformarsi alle visioni critiche dell’Occidente. Non tanto dal punto di vista politico ma di approccio al lavoro e alla società ipercompetitiva.

Ma c’è anche l’ipotesi che un gruppo così potente e patriottico cominci a covare rabbia per un diritto al benessere improvvisamente negato anche da situazioni geopolitiche che ha creato e crea l’Occidente. Aggiungiamo che, come scrive Rampini, quei ragazzi sono abituati a “restituire” con gratitudine allo Stato periodi tempo dedicati alle proprie forze armate, che, nel frattempo sono diventate anche ipertecnologiche.

Meglio non fare un confronto troppo approfondito con gli eserciti professionali di Stati Uniti e soprattutto d’Europa. Dove ormai risulterebbe complicato imporre un training militare agli under 25.

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