La rappresentazione dell’epidemia, da Boccaccio a Manzoni, fino al Coronavirus.

di Antonello Laiso. Le polemiche sulla gestione del contenimento di questo maledetto virus non si placano. Polemiche e contrapposizioni che esistono nelle stesse istituzioni, e tra di noi popolo tenuto a rispettare i tanti, forse troppi e confusi, decreti leggi.
Ma la pericolosità di questo virus non è solo quella nota, ovvero la sua rapida diffusione e le terapie intensive super affollate, esiste anche la pericolosità mentale di come affrontiamo il virus.
Allora la storia, come sempre maestra di vita, ci viene in aiuto.
Il Manzoni, pur non avendo visto la peste, aveva studiato documenti su documenti, descritto la psicosi, la follia, e le teorie assurde sulla sua origine e sui suoi rimedi, scrivendo di quel tale che solo per aver toccato un muro del Duomo di Milano venne linciato dalla folla con l’accusa di spargere il morbo.
Il Boccaccio, invece, l’aveva vista la peste, aveva visto amici persone parenti e suo padre morire e quindi si convinse che l’effetto più terribile della peste era la fine del vivere civile tra la gente.
Il vicino iniziava a odiare il vicino ed il parente ed i contagiati.
La peste aveva messo gli uomini gli uni contro gli altri.
Il Boccaccio rispondeva con Decameron, il più grande inno alla civiltà.
Il Manzoni, invece, rispondeva con i Promessi Sposi, somma elegia della fede e della cultura.
In generale essi invitavano le genti ad essere più umane, cosa non facile e scontata quando il mondo impazzisce.

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