Via della seta. Grande iniziativa, ma est modus in rebus.

di Paolo Cirino Pomicino. Nel gennaio del 2017 a Davos il presidente cinese XI Jinping dette una lezione sulle virtù della globalizzazione e difese con forza il libero mercato contro le tentazioni protezionistiche del nuovo presidente americano Donald Trump.

Quella che sembrava una svolta epocale nel più grande paese comunista in parte lo era per davvero ma in parte faceva di necessità virtù. Il motivo è presto detto.

Politica ed economia camminano nella storia dell’uomo sempre di pari passo, una volta scontrandosi altre volte trovando punti di intesa. Un libero mercato non può che esistere in un sistema politico liberale perché, diversamente, sarà solo un mercato ma non certo libero.

Se lo Stato è l’unico protagonista economico in un paese di un miliardo e mezzo di persone è lo Stato che fa il mercato, lo dirige, lo esalta o l’affanna ma certo non lo affida al libero gioco dei protagonisti privati. Sia chiaro, noi abbiamo sempre sostenuto la necessità di una presenza pubblica in economia ma una cosa è una economia mista altra cosa è una economia in cui lo Stato ha una presenza totalizzante.

Come nel secondo dopoguerra Croce diceva ad Einaudi che essere liberale non significava essere liberista oggi bisogna dire a tutti i leader politici che un libero mercato non può prescindere da una democrazia liberale o comunque da un sistema di libertà personali e collettive.

In realtà sullo scacchiere mondiale si stanno giocando diverse partite la prima delle quali è proprio la definizione di un modello politico-economico sostenibile sul piano sociale, ambientale, demografico e finanziario.

Mentre l’Occidente con il suo modello liberale e liberista produce sul terreno economico crescita e disuguaglianze senza precedenti, l’Oriente anch’esso da tempo produce ricchezza non solo per le popolazioni, gran parte delle quali soffrono ancora la fame, ma arricchiscono gli Stati con i fondi sovrani con i quali penetrano poi nei sistemi economici occidentali affamati di risorse comprando eccellenze ed asset strategici ai fini dello sviluppo di molti territori che rischiano di diventare così economicamente dei veri e propri “governatorati”.

In questo scenario pensare di salvaguardare l’interesse nazionale con i dazi è da dilettanti e per giunta da dilettanti che puntano a giocare la partita della vita da soli.

Il presidente americano è il portabandiera di questa strategia che potremmo definire “dazi e accordi bilaterali” e che trova nel nostro incredibile governo uno dei maggiori seguaci con l’aggravante” che gli USA da soli sono una potenza, l’Italia in venti anni di fatto è già in parte colonizzata dal capitalismo internazionale e questo governo l’ha pure isolata come testimonia la riunione parigina tra Macron, la Merkel, Junker e XI Jinping.

L’iniziativa cinese della via della seta, “belt and road”, è una grande iniziativa perchè infrastruttura una larga parte del territorio euroasiatico favorendo scambi commerciali, crescita culturale, risanamento ambientale, occupazione e ricchezza a vantaggio di molti. Ma est modus in rebus!

La sfida con la Cina e parte dell’oriente deve essere affrontata dalla Unione Europea e dall’intero G7 perché la dimensione del progetto ha bisogno di essere accompagnata da altre iniziative di carattere globale.

C’è bisogno ad esempio di un nuovo ordine monetario per evitare che guerre valutarie possano scatenare guerre commerciali e viceversa, c’è bisogno di una disciplina dei mercati finanziari che agevoli l’uso produttivo del capitale al servizio degli investimenti e probabilmente, sino a quando l’evoluzione politica dell’oriente non si completi, bisognerebbe immaginare il fitto di alcune grandi infrastrutture piuttosto che l’acquisto.

Insomma i grandi progetti vanno sempre accompagnati da misure prudenziali e generali per far sì che essi cadano in un contesto che unisca e non divida o addirittura colonizzi.

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