Il contagio: luoghi comuni ieri e oggi.

di Francesca Marra.
I luoghi comuni
Comunque, malgrado l’apporto personale di ogni singolo autore, le descrizioni più ampie e celebri mostrano la presenza di tópoi ricorrenti, il che ne conferma la natura letteraria. I motivi ricorrenti sono: 1) la discussione sull’origine della malattia; 2) i sintomi e il decorso; 3) l’incapacità della politica e dei medici a contrastare il contagio; 4) la desolazione delle città e delle campagne; 5) la mancanza di pietà per i moribondi e per i defunti e la disgregazione del vivere civile, sostituito dal sospetto reciproco.

Mentre i primi due punti variano a seconda della particolare epidemia descritta, gli altri suonano familiari in qualunque epidemia, anche in questi giorni in cui la nostra attenzione è concentrata sul coronavirus.

Il silenzio delle città

Ad esempio, le immagini dei luoghi-simbolo di Roma e Milano, solitamente affollati di turisti ma ora vuoti e silenziosi, ci tornano alla mente leggendo la descrizione della “peste di Giustiniano” (541-542) fatta da Paolo Diacono (VIII secolo d.C.):
“Prima avresti visto villaggi e accampamenti pieni di schiere d’uomini, il giorno seguente ogni cosa immersa in un silenzio profondo perché tutti erano fuggiti […]. Potevi vedere il mondo riportato al silenzio delle sue origini: nessuna voce nei campi, nessun fischio di pastore” (Historia Langobardorum II, 4, trad. A. Zanella).
Lo stesso effetto ci fa la camminata di Renzo nella Milano deserta all’inizio del cap. XXXIV dei Promessi sposi, nelle cui strade si aggirano passanti rari, sospettosi e aggressivi.

Questa desolazione è dovuta al cambio delle abitudini: molte persone rinunciano a uscire e a viaggiare per rimanere in casa, evitando ogni contatto umano che non sia strettamente indispensabile. Anche nella peste di Firenze del 1348, stando a Boccaccio, alcuni “avvisavano che il viver moderatamente e il guardarsi da ogni superfluità avesse molto a così fatto accidente resistere; e fatta brigata, da ogni altro separati viveano”.

Le false notizie e la diffidenza verso lo straniero

La necessità di dare un senso a un male che sembra inspiegabile porta alla diffusione incontrollata di superstizioni, come la credenza del passato secondo cui la peste fosse dovuta a un particolare allineamento di pianeti, e di notizie false, come l’idea che la malattia sia diffusa artificialmente da alcuni individui. Come al solito, a fare le spese del clima di paranoia sono gli stranieri, ritenuti nemici per eccellenza: lo sanno bene gli sfortunati cinesi che in questi giorni sono stati aggrediti verbalmente e fisicamente in varie città d’Italia. Come si vede, le fake news a sfondo razzista esistevano anche prima di chiamarsi così!

Secondo Tucidide (II, 48, 2), all’inizio della pestilenza gli Ateniesi “dissero che i Peloponnesiaci avevano avvelenato i pozzi” (trad. M. Cagnetta), visto che da un anno erano entrati in guerra contro di loro. E quando durante la peste di Milano si diffuse la diceria sugli untori, che diffondevano la malattia spargendo polveri e unguenti, “i forestieri, sospetti per questo solo, e che allora si conoscevan facilmente al vestiario, venivano arrestati nelle strade dal popolo, e condotti alla giustizia” (A. Manzoni, I promessi sposi, cap. XXXI). Spesso l’arresto era una salvezza per loro, altrimenti sarebbero stati linciati dalla folla. Sempre secondo Manzoni, solo così si salvarono tre giovani turisti francesi, malmenati dalla folla solo perché avevano guardato attentamente il Duomo di Milano; non altrettanto fortunato fu un vecchio, linciato perché aveva spolverato una panca prima di inginocchiarsi a pregare (cap. XXXII).

Chi specula sulla malattia

Nelle pestilenze non mancano mai gli speculatori, che sfruttano le condizioni di bisogno o le paure della gente per fare denaro, e gli sciacalli, che ne approfittano per rubare. Quelli che oggi vendono disinfettanti e mascherine a prezzi esorbitanti discendono evidentemente da quelli che nel 1348, a Firenze, si facevano assumere a peso d’oro non per sfamare, pulire o medicare gli ammalati, ma semplicemente per porgere loro degli oggetti o guardarli morire, come narra Boccaccio (“l’avarizia de’ serventi, li quali da grossi salari e sconvenevoli tratti servieno, […] li qual niuna altra cosa servieno che di porgere alcune cose dagl’infermi addomandate o di riguardare quando morieno”; Introduzione, par. 28). Quanto agli sciacallaggi, Manzoni descrive quelli compiuti non solo dai monatti, ufficialmente incaricati dal comune di rimuovere i cadaveri, ma anche quello del Griso, il capo dei bravi di don Rodrigo, che prima fa portare via a tradimento il suo padrone, poi fruga nei suoi vestiti alla ricerca di qualche spicciolo e così contrae anche lui la peste che lo uccide il giorno dopo (I promessi sposi, cap. XXXIII).

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