Il carcere toglie la vita.

di Vincenzo Andraous. In carcere non è facile niente, letteratura poco comprensibile anche per chi intende guardare senza volgere lo sguardo in luoghi meno affollati e disumanizzanti. Al concetto di pena è stata corrisposta la più sorda sofferenza, al male commesso è ritornato una sorta di metodo-espiazione incompreso e malamente interpretato, che obbliga la coscienza a inventarsi nuove maschere e vecchie menzogne. La quotidianità carceraria è così devastante che l’Ordinamento Penitenziario, il Codice Penale, la stessa Costituzione, barcollano sotto i colpi feroci dell’umiliazione, quale sfinimento della propria dignità.
Si configura una strategia della disinformazione, con la necessità di parlarne a sproposito, disinvoltamente, caricando il panorama penitenziario italiano di chiacchiere da bar, nel tentativo di attutire il peso insopportabile dell’ingiustizia, unica sproporzione penale nel rendere insignificante una tragedia perpetrata dentro le celle. Sperpero di proclami, di pubblicistica interventista sulla nuova edilizia carceraria, nelle molteplici risorse umane e professionali, nel rispetto delle peculiarità del trattamento, nelle leggi, nelle regole date anch’esse assenti ingiustificate, invece ci sono, mentre sono irreperibili i modi, i tempi, le pratiche per poter applicarle correttamente, il valore di una misura alternativa che rimargina la frattura fatta diventare normalità. 
“Un carcere a misura di uomo”, decine di anni a fare i conti con questa dicitura che nel frattempo s’è ridotta a scarabocchio indistinto, a causa del carico di disperazione imposto, dalle intemperie dialettiche sopravvenute: quando la galera deruba dei diritti e dei doveri il cittadino detenuto, obbliga a distogliere lo sguardo anche agli altri cittadini liberi. Rimangono a fare da ponte i corpi-contenitori vuoti di una società rinchiusa, depredata di voce per aggiungere un senso a una dignità da ritrovare, conquistare e mantenere. 
Nelle carceri c’è stata una ventata di “new entry educative”: celle aperte durante il giorno, ora d’aria allungata, maggiore conformità all’autoresponsabilizzazione, per riconsegnare attenzione dove non ce n’è, all’uomo in catene come alle vittime, per tentare di arginare un oblio che veste sempre più i panni del boia indifferente. C’è stato un tempo in cui la galera ha respirato il detenuto così spietatamente da farlo diventare un pezzo di angolo di quel cemento: oggi la prigione toglie la vita come atto concesso, una specie di elemosina imposta verso chi non ha più amori, cose, abitudini intellettuali, la parvenza di un diritto, figuriamoci di un dovere. Anche queste concessioni seppure di buon auspicio disegnano drammaticamente una via di fuga da ogni affinità umana, un disperato spasmo, per una umanità accatastata e abbandonata alla noia del non fare niente. In questa tragica sopravvivenza, ogni giorno evade uguale nella sua dimenticanza, contando l’ultimo uomo rimasto senza più piedi alla terra: anche in questa assenza scoordinata e sgangherata dal tempo della discordia inumana, c’è testimonianza e narrazione di vita perfino nella morte, anche in quella meno conosciuta o famosa.

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