Esportare democrazia, vuol dire dare un futuro a tutti coloro che fuggono da guerra e fame.

di Clemente Luciano. Le immagini che arrivano da Kabul continuano a percorrere l’anima, a turbare la coscienza, a scavare nel profondo del proprio sé e del noi collettivo. Più passano i giorni e più ci rendiamo conto di quanto drammatico sia stato il fallimento dell’Europa e degli USA in quelle lontane terre afghane, che però riflettono da vicino lo stato attuale di questa nostra civiltà occidentale.

Adesso, oltre il rischio del ritorno del terrorismo, c’è una domanda da farsi: chi si fiderà più delle promesse degli occidentali in tutte quelle aree del mondo (dall’Islam moderato all’Indonesia,da Taiwan all’Asia dall’Africa al Sud America) in cui si lotta per superare miseria e arbitrio e acquisire libertà e democrazia?

Proprio in questo “vulnus” lasciato dall’Occidente è facile prevedere che si infiltreranno quei regimi autoritari come la Cina, la Russia e la Turchia. Questo è il risultato del triste finale della crisi afghana che mette in discussione la fiducia che il popolo afghano aveva riposto nelle promesse fatte 20 anni fa, e che, anche se solo in parte, avevano gettato germogli di speranza: una scolarizzazione diffusa, la laicizzazione della società, la conquista, da parte delle donne, di nuovi spazi di libertà.

La sconfitta di Kabul, oltre che militare ed economica, è anche una sconfitta culturale, perchè con essa cade definitivamente l’idea che il pianeta possa essere unificato attorno ad alcuni valori di vita comuni. Al contrario, dalla restaurazione del regime talebano, esce fuori un mondo a pezzi: da un lato la modernità di un mondo supertecnologizzato, dall’altra gli arcaismi di una società fondamentalista e integralista.

La crisi afghana segnala il fatto che viviamo in un mondo lacerato che abbiamo costruito in maniera disordinata e dimidiata, con diseguaglianze economiche clamorose e arricchimenti a danno dell’ecosistema planetario. Avevamo vissuto in una sorta di ebbrezza prodotta dalla caduta del muro di Berlino e del comunismo. E non ci siamo accorti,o abbiamo fatto finta di non accorgerci,dei nuovi muri materiali e mentali,dietro i quali si sono discriminazioni etniche e razziali.

In questo momento di scoramento e pessimismo diffuso,ci assale lo sconforto nel pensare che,sia per i Paesi poveri che per le democrazie occidentali,muore la speranza che un avvenire desiderabile sia possibile. L’Afghanistan ci insegna che nulla è facile e tutto deve essere guadagnato,giorno dopo giorno,centimetro per centimetro.

La libertà, la democrazia, il mercato, la scienza (che qui da noi appaiono scontate) non sono cose che si possono “esportare” ad altri popoli che hanno diverse culture,tradizioni e religioni,che le devono “semplicemente” recepire. Del resto anche qui in Occidente quei valori sono stati acquisiti e conquistati nel corso di secoli e poi ancora rimessi in discussione nella prima metà del Secolo scorso,dopo essere stati soppressi dalla barbarie e dagli orrori del nazismo e del fascismo.

In ogni caso della “teoria” dell’esportazione della democrazia, occorre salvare il nocciolo. E se abbiamo ancora qualcosa da dire e da dare al mondo dobbiamo verificarlo nel vivere concreto di noi occidentali.

Anzitutto,per esportare democrazia dobbiamo essere in grado di risanarla ogni giorno,combattendo ingiustizie e disuguaglianze;risolvere le sue debolezze,migliorare l’efficacia dei nostri governi,esprimere nuove forme di solidarietà verso gli altri,soprattutto in questo periodo di crisi sanitaria ed economica.

Sul piano internazionale, la democrazia si afferma riempendo di contenuti concreti il metodo del dialogo,come unica strada per trovare soluzioni alle questioni che legano insieme tutte le comunità politiche del pianeta (dalle migrazioni al cambiamento climatico e adesso anche nella tutela mondiale contro la pandemia). Perchè è proprio questo il significato del termine “dialogo”(dal greco “conversare,discorrere”) e che indica,perciò,il confronto che attraversa persone e popoli come strumento per esprimere sentimenti diversi e discutere di idee,apparentemente diverse.

E’ questo il verbo che noi occidentali per prima dobbiamo imparare a declinare se vogliamo davvero “esportare” libertà e democrazia. Perchè poi la democrazia – e tutti i valori che ci stanno a cuore – si “esporta” non con le armi ma attraverso la cooperazione,la “comprensione” che significa avere tolleranza verso le ragioni dell’altro.

Se possiamo “esportare” qualcosa,questa è proprio l’idea che sviluppo umano,economico,sociale e istituzionale procedono l’uno in relazione all’altro.Col dolore negli occhi e nel cuore,l’Occidente deve capire dove ha fallito rispetto a quello che voleva essere.

Dopo Kabul,in questa situazione di emergenze globali (dovuti proprio alle guerre e agli squilibri ecosistemici arrecati dall’uomo) alle quali, da ultimo, si è aggiunta la tragedia del virus, è la nostra strategia di come stare al mondo che va ripensata, e, invece che costruire muri, provare a riaprire un varco e una speranza di futuro a tutti quelli che tutto hanno perso e fuggono dalle guerre e dalla fame. E’ in questo modo che daremo senso anche alle nostre democrazie, oggi indebolite da populismi e nazionalismi egoistici e intolleranti.

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