E se l’Italia fosse già fuori dalla crisi?

di Gerardo Lisco. E se l’Italia fosse già fuori dalla crisi? La risposta a questa domanda sembra ovvia, no! L’Italia non è fuori dalla crisi, anzi ogni giorno che passa la situazione peggiora. Per un precario, un disoccupato, un occupato che stenta ad arrivare alla fine del mese la crisi c’è e come! Proviamo invece a ribaltare il punto di vista e vediamo se la crisi c’è o è solo un ulteriore passaggio verso la stabilizzazione del sistema liberale.
 Crisi vuol dire trasformazione, mutamento, è la crisalide che diventa farfalla. Per cui se crisi significa cambiamento strutturale del sistema siamo sempre in presenza di giudizi di valore. Dipende dal sistema sociale che si vuole edificare. Riflettiamo sull’idea di sviluppo e di crescita che in questi anni si è andata consolidando. L’idea è quella del c.d. Wasghington Consensus. Secondo John Williamson, che inventò il termine, le riforme necessarie che ciascun governo doveva introdurre per rilanciare la crescita e lo sviluppo sono: deregolamentazione, liberalizzazione commerciale e finanziaria, privatizzazione, stabilità valutario e disciplina fiscale. Eravamo nel 1989 quando Williamson lanciò il suo progetto recepito nel mondo accademico e politico liberale di tutto il mondo. Se analizziamo le politiche economiche messe in campo dai Governi Occidentali notiamo che le indicazioni sono state non solo applicate ma continuano ad essere il punto di riferimento per la stragrande maggioranza di essi. Lo sono anche per quei governi che si autodefiniscono di sinistra o di centrosinistra come quello italiano. Queste indicazioni, pur di fronte ai fallimenti delle politiche economiche di qualche anno fa, continuano ad essere applicate. La risposta alle osservazioni circa il fallimento di queste politiche economiche è che le “riforme” non sono state completamente applicate perché hanno trovato resistenza da parte di forze politiche conservatrici, delle organizzazioni dei lavoratori e così via. Se non fosse chiaro quando si parla di forze politiche e sociali “conservatrici” ci si riferisce a quei movimenti politici che difendono l’interesse sociale rispetto allo strapotere delle minoranze rappresentate da oligarchie finanziarie e tecnocrazie. Oggi “conservatori” sono i precari, i disoccupati, i working pour che non accettano con gioia e soddisfazione la loro condizione. Di contro “modernizzatori” sono coloro che fanno miliardi con la speculazione finanziaria e le organizzazioni politiche che li rappresentano sono i Progressisti. Se analizziamo attentamente quanto è stato fatto a partire dal Governo Monti in poi il risultato è palese: l’Italia è prossima a realizzare questo nuovo equilibrio di sistema ed è quindi fuori dalla crisi. Quali sono gli elementi che indicano la fuori uscita dalla crisi?
Un primo elemento è facilmente rintracciabile nel Jobs Act. Dietro l’apparente difesa del lavoro precario si nasconde un obiettivo molto semplice e cioè la mercificazione del lavoro e quindi del lavoratore. Per capire fino in fondo cosa significhi flessibilità del lavoro bisogna fare un salto indietro nella Storia e chiedere a un ottantenne quali erano le condizioni di lavoro della sua epoca. Se non si ha a disposizione un anziano a cui chiedere, una lettura rapida di Fontamara, Cristo si è Fermato ad Eboli o Le terre del sacramento possono aiutare. Quanto hanno in comune il bracciante descritto in uno di questi romanzi e il lavoratore flessibile descritto nei vari atti normativi in materia di diritto del lavoro degli ultimi anni? io dico molto.
Altro indicatore è la riduzione degli strumenti di partecipazione Democratica. In primo luogo la fine del partito tradizionale surrogato da partiti personali dove non conta più l’iscritto ma il finanziatore. Non conta la partecipazione del militante che rappresenta interessi diffusi ma il faccendiere.
In secondo luogo la ridefinizione della governance: ad esempio, la falsa abrogazione delle Province con amministratori non più eletti dai cittadini ma dai rappresentanti del ceto politico. Ancora l’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti, che non riduce la corruzione o l’uso improprio di risorse pubbliche, al contrario è l’anticamera per la legalizzazione della tangente che si chiamerà contributo e che avrà come controparte l’approvazione di leggi ad personam.
Ulteriore indicatore è la riforma del sistema giudiziario, con la quale ampi spazi vengono riservati alla negoziazione tra le parti in lite. Sul piano culturale una tale impostazione è giustificata dagli eccessivi costi dei processi e dalla necessità di ridurre la relativa spesa pubblica. Si dimentica che l’amministrazione della giustizia è un fattore di certezza del diritto rispetto al più debole e non rispetto a chi è più forte, il quale, come è facilmente immaginabile, in un rapporto di negoziazione ha più risorse da investire quindi parte per ovvie ragioni avvantaggiato rispetto a chi è più debole. L’efficienza e l’efficacia nell’amministrazione della Giustizia attiene, ancor prima che questioni di bilancio pubblico, la maestà della legge.
Altri indicatori sono il debito pubblico e il deficit pubblico strumenti ideologici con i quali si giustifica lo smantellamento di tutto ciò che è pubblico. Ancora le idee di competitività e di capitale umano. Idee queste che mirano a legittimare la disuguaglianza e la creazione di un sistema sociale gerarchizzato in cui conta lo status sociale e il mantenimento dello stesso a favore dei ceti sociali dominanti. La lettura di qualche romanzo ottocentesco aiuterebbe a capire le dinamiche in atto meglio di molti studi di sociologia e di economia. Altri indicatori sono gli indici che vengono presi a riferimento per segnalare la fuoriuscita dalla crisi, prima tra tutti indici borsistici e spread.
In conclusione l’Italia è fuori dalla crisi ma questo superamento non coincide con l’aspettativa di milioni di cittadini che ogni giorno vedono peggiorare le proprie condizioni sociali ed economiche.

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