Diritto alla pensione: speranza di vita o speranza di morte?

di Grazia Nonis. Quando l’abbiamo vista piangere abbiamo capito. I nostri governanti, per bocca e canale lacrimale della Fornero, avevano messo in scena l’ennesima farsa per dirci che saremmo andati in pensione all’età di Matusalemme e con la sua stessa speranza di vita. Abbiamo atteso e sperato che i sindacati intervenissero in difesa dei nostri diritti e far sì che almeno il tetto dei quarant’anni di lavoro, a prescindere dall’età anagrafica, fossero un paletto insormontabile. E invece no.
Ci hanno ingabbiato all’incremento della “speranza di vita” o, più concretamente, età pensionabile legata alla speranza di morte. E hanno iniziato a dare i numeri: 41, 42 , 43, 44, 45 anni di lavoro. Così un “precoce” è da condannare per aver iniziato ad accumulare i contributi verso i quindici anni, e da penalizzare non mandandolo a riposo a prescindere dai suoi 41 o 42 anni di lavoro. E’ troppo giovane per la pensione, ma troppo vecchio per trovare un altro lavoro in caso di perdita del posto. E così ci fanno vivere nel terrore che l’azienda chiuda: persone di cinquanta/sessant’anni che si sentono respinte dal mondo del lavoro e che si vedono bloccare sia lo stipendio sia gli anni utili al raggiungimento della messa a riposo. Gente che, pur avendo versato 35/38 anni di lavoro, dovrà attendere la magica soglia dei 68 anni e arrancare in salita sperando di entrare in una qualche finestra di folle abbinamento matematico dello scenario demografico Istat: età anagrafica/speranza di vita/anzianità contributiva. Dipingono gli odierni settantenni come arzilli giovanotti che durante il fine settimana si cimentano in sci di fondo, gareggiano in maratone o si lanciano dal ponte col bungee jumping, per poi tornare il lunedì mattina in catena di montaggio, a far su la malta o salire sui ponteggi. I più fortunati, in ufficio, fanno i conti con la loro memoria che se ne frega delle statistiche ma si fida dell’orologio biologico personale, e attaccano post-it ovunque per non passar per citrulli. Certo, alcuni arrivano anche a novant’anni freschi come fiori di pesco, ma ad altri non va poi così bene: basta fare un giretto negli ospedali per rendersi conto delle persone che vengono “restaurate” nel fisico e nella mente…. e che, dimessi, si trascinano verso il posto di lavoro, se hanno la fortuna di averlo. Ci hanno portato a detestare i baby pensionati, che con la metà delle nostre rughe e dei nostri acciacchi, vivono da anni con una rendita che non gli sarebbe spettata e che noi siamo obbligati a foraggiare lavorando per loro. Ma siamo consapevoli, e ce ne vergogniamo un po’, che se potessimo faremmo altrettanto. E mentre noi controlliamo queste tabelle come se fossero i nostri necrologi, pensiamo a quello che spetterà ai nostri figli; gli attuali collaboratori a breve termine, a contratto o con partita iva: un futuro esercito di mendicanti che proverà invidia degli odierni pensionati a cinquecento euro al mese. Ragazzi che dovrebbero salvaguardare la propria vecchiaia contro il menefreghismo statale e crearsi così una pensione integrativa privata. Ma i nostri giovani non se la possono permettere oppure, come li ha etichettati qualcuno dal pulpito del suo sommo sapere, sono troppo bamboccioni o troppo choosy, anche solo per pensarci. Nel frattempo, i nostri parlamentari se la suonano e se la cantano con lauti vitalizi e ricchissime pensioni da nababbi che, per la stragrande maggioranza, non si sono guadagnati ma che indebitamente si sono assegnati. Mentre con noi giocano alla tavola pitagorica, infilandoci in caselline dove moltiplicano la nostra età e vigliaccamente sottraggono la nostra vita e la nostra dignità, si arrogano il diritto di decidere per noi e per il “bene del paese”, ma sono di manica larga con i loro diritti di classe di potere. Le leggi hanno modificato e diminuito, di poco, le loro entrate odierne e future con qualche “taglietto”, e loro, per pareggiare i conti e non perdere un solo centesimo, si aumentano le varie indennità e fanno la cresta sulla nota spese infilando mutande, prosciutti e fumetti vicino al pranzo di rappresentanza consumato in ristoranti da Gambero Rosso. Da cattivi attori quali sono, non riescono a nascondere l’arroganza o la superbia che li contraddistingue e che li porta a dichiarare con ipocrisia, sempre e comunque: “Quali soldi, quale casa, quale mutuo…. qualcuno li ha depositati, comprato o estinto a mia insaputa”. Ma…“Sono sereno, tutto verrà chiarito”!

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